Il lavoro non basta

Per SALVATORE ABBRUZZESE, ci si può accontentare di un lavoro modesto solo se si è convinti di esistere per una vita che va al di là e si riceve in abbondanza da un’altra parte

La crisi economica attuale colpisce in modo selettivo e non uniforme. Vi sono categorie, fasce generazionali, a volte aree geografiche drammaticamente esposte ad un tracollo verticale delle possibilità di lavoro. Accanto a queste, in una prossimità sconcertante, vi sono altre aree sociali che, pur non potendo recuperare gli stili di consumo degli anni passati, riescono a mantenere i loro standard di vita ad un livello più che accettabile. Emerge così una differenza netta rispetto al passato: questa volta la crisi non è uniforme, non colpisce tutti allo stesso modo; spesso chi perde il lavoro si trova a vivere in un ambiente che, non essendo stato colpito se non superficialmente, lo porta a percepirsi come un’eccezione ed a vedere il proprio problema come una vicenda personale, un dramma solamente suo.

Una tale dinamica è tanto più importante quanto più la crisi attuale produce danni che vanno ben al di là della perdita del lavoro e, attraverso la crisi dei progetti personali, colpisce l’identità, cioè la percezione che il soggetto ha di sé e delle proprie possibilità. Se il dramma è spesso vissuto in solitudine, la sensazione di un’incapacità personale o di un destino avverso, generano in chi non riesce ad inserirsi nel mondo del lavoro, un’immagine negativa, una franca e sottile disistima che spegne la persona in ciò che ha di più caro: la fiducia in sé. I quasi quattro milioni di giovani tra i 15 ed i 34 anni che non studiano, né cercano un posto di lavoro, rispondono spesso ad una dinamica di questo tipo. Esiste un annichilimento della persona, una sua riduzione all’essenziale, un primato del quotidiano che, facendogli apparire qualunque cosa, al di là del lavoro qui ed ora, come un semplice diversivo, una deviazione inutile, produce una disaffezione alla vita ed alle sue possibilità.

Stare accanto a chi è senza lavoro non vuol dire allora solo trovargli un’occupazione, una soluzione immediata. Accanto e a volte anche prima di questa, diventa sempre più importante consentirgli di non perdere, ma anzi potenziare la propria immagine di sé, della sua unicità ed irripetibilità. Chi cerca lavoro, prima ancora di questo ha bisogno di sentirsi riconosciuto nelle sue qualità e nelle sue capacità e, proprio per questo, apprezzato. Stare accanto, condividere, essere solidali, vuol dire allora stare attenti alla persona, all’immagine che questa si fa di sé. Si tratta di non limitarsi a fornire un servizio, ma di sviluppare una relazione. Si tratta di riconoscere la persona nella sua unicità e nella sua personalità, aiutarla ad emergere ed a rappresentarsi: è questo il primo passo di ogni agire solidale. Prima di guardare l’altro come portatore di bisogni essenziali, occorre riconoscerlo nelle sue qualità come nelle sue speranze, restituirgli la dimensione del soggetto alla ricerca del proprio compimento. 

Ci si può accontentare di un lavoro modesto e poco pagato solo se si è realmente convinti di essere e di esistere per una vita che va al di là di questo. Si può vivere di un lavoro modesto solo se si riceve la “vita in abbondanza” da un’altra parte. La ristrettezza economica può essere superata solo da un’immagine forte della propria dignità, della qualità di ciò che si è e di ciò per cui si è stati fatti.

Ma una tale sicurezza, una tale fiducia ed un tale riconoscimento di sé, si fondano su una capacità di guardarsi che il soggetto non può produrre da sé, ma gli viene da quello specchio particolare che sono gli sguardi degli altri. Diviene allora importante la rete di relazioni significative nelle quali il soggetto trova lo specchio che gli dice ciò che realmente è e ciò che realmente vale. Nessuno cerca l’abbondanza, diceva Péguy, ma tutti coltiviamo un bisogno di città ed un bisogno di memoria. La città è il luogo nel quale ci sentiamo riconosciuti nelle nostre qualità, che ci definisce per ciò che siamo, così come ci riconosce nei nostri desideri, cioè negli obiettivi di vita in cui speriamo. La memoria è la conseguenza di tutto questo: l’esperienza di essere riconosciuti per ciò che siamo genera il desiderio, sommesso, di non essere dimenticati. Chi ha questo sguardo verso di noi, questi ci è essenziale, ci è vitale. Colui che ci guarda così è per tutti noi, l’amico vitale, l’altro che ci è prezioso, indispensabile. È questa la nuova emergenza.

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