Sarà vero – come dicono gli esperti in telecomunicazioni – che la serie televisiva “Don Matteo 9”, che ha avuto la straordinaria media stagionale di otto milioni di spettatori, è “specchio del pubblico attempato e post democristiano della rete pubblica ammiraglia”.

Sarà vero anche – come sostengono tanti alfieri di un cattolicesimo di battaglia – che le storie del prete detective sono “lo specchio di un’Italia che sopravvive a se stessa in quanto cattolica” e non offrono altro che “un cattolicesimo di provincia e di buoni sentimenti”, del tutto inadeguato – dicono – alle sfide del presente. Sarà infine vero – come afferma chi se ne intende – che cinematograficamente la trasmissione lascia piuttosto a desiderare.



Sarà tutto vero, ma non mi sembra sufficiente a spiegare il successo della trasmissione. E, a dirla tutta, mi puzza di snobismo, tipico degli intellettuali che non vogliono proprio capire come mai la “gente” si perda dietro alle banali vicende del prete di Spoleto invece che appassionarsi al loro intelligentissimo talk show o attivarsi per qualche «grande causa» da loro propugnata.



È vero, nelle puntate di Don Matteo hanno trionfato i «buoni sentimenti»; quelli a cui una vulgata superficiale vorrebbe ridurre anche l’insegnamento di papa Francesco e il contenuto stesso del cristianesimo: volersi bene, accogliere gli ultimi, rispettare gli stranieri, essere gentili e via sentimentaleggiando.

Ci sono però due o tre cosette che non rientrano tanto facilmente in questo elenco mieloso e che forse sono quelle che colpiscono, magari inconsapevolmente, così tanti spettatori. Anzitutto l’incrollabile certezza che ogni avventura può concludersi per il meglio, da ogni disgrazia ci si può risollevare, da ogni errore riprendere.



Non è affatto ovvio nelle condizioni di difficoltà in cui viviamo; e bisognerà pur prendere atto che c’è molta “gente” che ama questa ipotesi di lettura mentre è arcistufa di quelle che si dilettano a mestare nel torbido, a esibire fango ed escrementi.

E poi il perdono. Non è tanto facile ridurre gli inviti di don Matteo in tal senso a facile perdonismo, quello degli intervistatori sciocchi che la prima cosa che chiedono al parente della vittima è se ha perdonato i carnefici. C’è nelle parole di quel prete almeno un breve spazio in cui uno capisce che perdonare non è una prerogativa della bontà puramente umana, che ci vuole ben altro; anzi, un altro che don Matteo chiama per nome: Cristo. Poi c’è la questione della morte; fin dalla puntata iniziale dell’ultima serie siamo venuti a sapere che un personaggio cui ci eravamo affezionati nelle serie precedenti è deceduta in un incidente stradale e poi ogni settimana – ovviamente, trattandosi in fondo di un poliziesco – la morte ce l’abbiamo sempre lì e dobbiamo trovarne una spiegazione. Che di fronte al più inquietante e buio dei passaggi dell’esistenza si venga messi davanti ad una chiesa romanica coi ceri accesi o al volto di un prete che ha una speranza anche in quel momento, è – al di là di ogni sentimentalismo – una prospettiva desiderabile.

E non c’è niente da fare: don Matteo non ha paura della morte perché crede che Cristo sia risorto. Al termine di un incontro a Milano, tani anni fa, la regista Liliana Cavani disse che avrebbe preso seriamente in considerazione la possibilità di abbracciare la fede cristiana se solo avesse incontrato qualcuno che le dicesse convinto di essere sicuro che Cristo è risorto. Allora non si alzò nessuno a dirlo. Allora, don Matteo resterà “sopravvivenza cattolica” se la “gente” non troverà chi gli documenti che abbiamo un destino buono, possiamo perdonare, proprio perché quell’Uomo è risorto.