In una famosa intervista del giugno 1992 Alain Finkielkraut – recentemente accolto tra gli “immortali” dell’Académie française – disse: “Péguy pone al centro della sua riflessione l’avvenimento. Un avvenimento è qualcosa che irrompe dall’esterno. Qualcosa di imprevisto. Ed è questo il metodo supremo di conoscenza. Bisogna ridare all’avvenimento la sua dimensione ontologica di nuovo inizio. È una irruzione del nuovo, che rompe gli ingranaggi, che mette in moto un processo”.
Mi sembra la migliore sintesi per spiegare il punto infuocato che ha caratterizzato la riflessione di Péguy e la sua insistita polemica con quello che chiamava “mondo moderno”; punto che rimane validissimo anche a distanza di un secolo e anche in un mondo che si definisce “post” moderno.
La questione è semplice e riguarda l’uso della ragione; ed è per questo che il “metodo supremo” dell’avvenimento riguarda tutti gli aspetti dell’esistenza – dalla cultura alla politica, dagli affetti alla religione, in quanto la ragione li osserva e giudica tutti quanti. Péguy si è accorto che i principali maîtres-à-penser della Francia del suo tempo ragionavano pressappoco così: se noi raccogliamo tutti i dettagli di un fenomeno – che sia storico, sociale, psicologico, religioso poco importa -, li suddividiamo in gruppi omogenei, li cataloghiamo per bene, identifichiamo i reciproci nessi, li ordiniamo in funzione del rapporto causa-effetto, alla fine avremo «conosciuto» quel fenomeno. Ma – osserva Péguy – l’esperienza vera, quella quotidiana, l’unica che facciamo, non si comporta affatto così.
Essa deborda continuamente dalle schedature in cui quel metodo falsamente razionale intende racchiuderla. Basta pensare al fenomeno dell’inesorabile scorrere del tempo; la semplice constatazione di questo «dato» impedisce di fare dei rapporti interpersonali – ad esempio – una categoria; in essi niente è mai uguale all’istante prima, tutto si sviluppa, tutto cambia, tutto «avviene». E noi non possiamo farci niente, se non umilmente accettare la «sovranità dell’evento». Ma il «partito degli intellettuali» non si rassegna a questa visione al contempo umile e ampia della ragione che si piega alla realtà così com’è.
Essi, al contrario, edificano continuamente del «sistemi» in cui la realtà venga ingabbiata, compressa, limata fino a farla coincidere con le idee da cui si era partiti. «I sistematici hanno preso la buona decisione di disprezzare la realtà. Quando hanno ragione, sono loro che hanno ragione; e quando hanno torto è la realtà, che avendo ragione contro di loro, ha torto di avere questa ragione».
È la descrizione perfetta del sistema ideologico che ha imperversato nei regimi totalitari del Novecento e che vige ancora oggi nella forma del «pensiero» unico o della «correctness» imperante. Ovviamente scrivere queste cose agli inizi del secolo scorso, in una Parigi dominata dal progressismo positivista, non era comodo e non suscitava consensi. Péguy – coi suoi Cahiers – si trova quindi sempre più solo e incompreso; l’accademia, la politica ufficiale, la grande stampa, per ben che vada, lo ignorano. Si apre nella sua vita un periodo di dolorosa difficoltà, che pone la radicale domanda su che cosa possa salvare un poveruomo dall’inaridimento funerario in cui sta cadendo il mondo moderno. Non potrà essere che la sorpresa di un avvenimento.