Ha colto subito nel segno papa Francesco ieri ricevendo un gruppo di pellegrini di L’Aquila. Ha raccomandato loro di tener viva la speranza e ha dato degli obiettivi molto precisi: “La ricostruzione delle abitazioni si accompagni a quella delle chiese, che sono case di preghiera per tutti, e del patrimonio artistico, a cui è legato il rilancio del territorio”. E poi con quell’istinto popolare che lo contraddistingue ha incoraggiato tutti, usando il dialetto abruzzese: “’Jemo ‘nnanzi’, andiamo avanti”.

Quel che il Papa ha raccomandato e indicato come priorità è esattamente quello che a L’Aquila non è stato affrontato in questi cinque anni: come tutti ricordano all’indomani del sisma si scelse la strategia di chiudere il centro storico in attesa di tempi migliori e di traslocare parte della città nelle new town. “L’irreversibilità della situazione si determinò nelle prime 24 ore”, ricorda Raffaele Colapietra, uno storico e docente che non ha mai voluto lasciare la sua casa. “Il sindaco dichiarò l’intero Comune zona rossa, lasciando la gestione dell’emergenza nelle mani della Protezione Civile, che, di fatto, prese possesso della città”. Così dei 20mila abitanti rimasero solo un centinaio di “eroi” e una trentina di insegne commerciali. Per il resto era un deserto. “Non si può sapere cosa ne sarà di questa città, ma, senza la sua vita quotidiana, L’Aquila muore”, ha spiegato Colapietra.

Cinque anni fa, quando il governo Berlusconi decise di puntare sulle new town, c’era chi aveva visto la cosa quasi con solllievo, avendo in mente esperienze di terremoti per i quali le situazioni di precarietà abitativa si erano trascinate per anni e anni. In realtà, alla radice di quella scelta c’era un presupposto drammaticamente sbagliato: si pensava che il Centro storico tutt’al più avrebbe potuto essere recuperato come “museo”, non certo come luogo propulsivo della nuova vita della città; come luogo che avrebbe riconnesso le trame dei rapporti comunitari stroncati dal terremoto e che le new town non hanno potuto certo rilanciare. Luogo anche di una ripresa economica, visto che il centro storico dell’Aquila è uno dei più belli e più grandi d’Italia.

Dietro a quella scelta di cinque anni fa c’era un’idea sbagliata d’Italia, in cui si finiva drammaticamente con il banalizzare la funzione della storia rispetto alla vita di oggi. La storia invece per un Paese come il nostro è la più grande delle ricchezze, non solo perché oggettivamente ci ha consegnato una serie inimmaginabile di tesori, ma soprattutto perché plasma il meglio della nostra coscienza collettiva, perché ci riporta a un modello di convivenza straordinariamente civile. La storia è un fattore generativo. Il Papa, che pur italiano non è, lo ha capito, proponendo come priorità la ricomposizione di quella triade attorno a cui si può ricostituire una comunità cittadina: case, chiese e patrimonio storico. Non è affatto uno sguardo al passato, a modelli valoriali superati dai tempi. È uno sguardo al futuro, in cui quel che la storia ci ha lasciato può diventare innesco di nuova vita.

Oggi nel centro storico dell’Aquila tanti cantieri sono stati finalmente attivati, e vengono portati avanti con competenza e serietà. Resta però quella drammatica asimettria per cui non si riesce a connettere il recupero dei palazzi e delle case con la funzione che potrebbero avere, con la vita che dovrà popolarli. Il rischio è quindi quello di trovarsi davanti a un’operazione di tutela assolutamente lodevole e necessaria ma fine a se stessa. Invece non bisognerebbe mai dimenticare che il senso del patrimonio, in un paese come il nostro, è nella vita e nelle relazioni che produce. Nella cultura che diffonde. A L’Aquila le pietre torneranno a vivere solo se ci sarà un popolo a farle vivere.