Un insegnante di Louisville (Kentucky), Paul Barnwell, ha pubblicato sulla rivista Atlantic un deciso atto di accusa contro l’abuso degli smartphone da parte dei suoi studenti. “I miei studenti non sono più capaci di avere una conversazione”. Il grido d’allarme che non è nuovo è contestato nella sostanza da Gianluca Leonetti che, recentemente, sulla Stampa, ha riproposto la nota tesi di un conflitto tra due modelli di apprendimento: il primo, fondato sul primato delle risorse informatiche nelle loro infinite varianti, costituisce l’espressione concreta di rinnovamento didattico adeguato ai tempi, “la nostra umanità viaggia più veloce”; mentre invece il secondo, strutturato sulla lezione tradizionale, è proprio di “apparati di tradizionale trasmissione del sapere” situati “un passo indietro” e soprattutto rimasti “in mano a chi difende il proprio fortino in nome di un’umanità usurpata”.

Al di là dei toni e degli schemi, non si può non denunciare un confronto mal posto e, in realtà, inesistente. Il problema non è qui costituito da quale modello debba prevalere, ma da cosa realmente definisca i due termini messi a confronto: un supporto informatico è solo un strumento di acquisizione e comunicazione, serve unicamente ad avere dati e scambiare informazioni; mentre la lezione scolastica, lo studio, vede nell’acquisizione di dati e di nozioni solo la prima parte del loro compito, ciò che è centrale è invece la capacità di analizzare i primi e di valorizzare le seconde. Sono due funzioni diverse e l’accelerazione nell’acquisizione dei dati resa possibile dalle autostrade informatiche non riduce minimamente i tempi di riflessione e di analisi.

I tempi dell’umano sono rimasti sempre gli stessi e questo non solo nel mondo della natura, dove per creare una vita, oggi come all’alba dell’umanità, ci vogliono nove mesi; ma anche nel mondo della cultura, dove non c’è elaborazione intellettuale che non nasca sul terreno del costante lavoro quotidiano. Un libro, qualunque sia il supporto sul quale è stato installato, va comunque letto e, soprattutto, va comunque compreso. Leggere la Critica della ragion puraIl disagio della civiltà o gli Analitici primi richiede esattamente lo stesso tempo di quanto ne occorreva ottant’anni fa. È necessaria la lettura di diverse decine di pagine prima di entrare nel clima e nei personaggi dei Fratelli Karamazov o di Vita e Destino o dello stesso Cent’anni di solitudine. Solo una lunga abitudine all’ascolto ci consente di apprezzare la “Musica sull’acqua”, le “Suites inglesi” o il “Rigoletto”. Non farlo vuol dire restare alla superficie, al riassunto posticcio e banale, al vezzo della citazione colta e inutile al tempo stesso.

Se lo scopo ultimo dell’istruzione è quello di comprendere le eredità culturali che abbiamo a disposizione, ciò non si riduce solo a prenderne atto dell’esistenza, al semplice esserne informati, ma comporta soprattutto il frequentarle, l’ascoltarle. 

È il lento lavoro dell’umano e si acquisisce solo svolgendolo. Credere che l’accelerazione dei tempi di comunicazione, o la visione su supporto informatico ci consentano di risparmiarci i giorni di lettura e le ore di ascolto è un’illusione pericolosa e fuorviante.

Alla scuola non compete solo il trasferimento delle informazioni, ma anche lo sviluppo dell’analisi e l’insegnamento alla riflessione. Il primo passo per farlo è comprendere, in ogni momento, il problema, la scommessa in gioco, la tensione che si cela dietro ogni opera, nessuna delle quali nasce mai a caso, ma ciascuna indica qualcosa, e questo qualcosa ci è essenziale. Per cogliere il problema che ciascuna di queste affronta occorre conoscere il linguaggio, passare per l’inevitabile apprendimento delle nozioni di base. Anche quest’ultime diventano importanti se si conosce la vera posta in gioco: quella di accedere al capitale di consapevolezza che c’è dietro. Si può studiare inglese solo per scambiare informazioni, ma se si arriva a leggere Shakespeare o Hume in lingua originale ci si apre un mondo.

Non serve a nulla conoscere italiano, greco e latino se poi non accediamo alla lettura degli autori, e non serve a nulla leggere quest’ultimi se non siamo capaci di “comprendere le ragioni” che sono dietro a ciascuno di questi. Qui risiede ciò che costituisce e giustifica la scuola una volta oltrepassato il confine degli studi primari: questo è il suo cuore. Senza la passione per le eredità da conoscere – una passione che, evidentemente, non può prodursi se non entusiasma anche gli stessi insegnanti e le stesse famiglie – la promessa educativa si svuota al proprio interno, qualunque sia la quantità di “lavagne multimediali” che possiamo avere a disposizione.