Quattrocento anni fa, il 7 aprile del 1614, moriva a Toledo il grande pittore Domenikos Theotokopoulos, detto El Greco. Il breve soprannome col quale è diventato famoso è una sintesi della sua vita. La locuzione è chiaramente spagnola e infatti Toledo fu la sua patria di elezione: vi visse dai 35 anni fino alla morte, a 73, e vi produsse gran parte della sua opera. Il soprannome indica le origini greche del pittore: era infatti nato nel 1541 nel capoluogo dell’isola di Creta, Candia, dove aveva iniziato a dipingere icone. In spagnolo si chiamerebbe, dunque, «el griego» ed invece il soprannome conserva il vocabolo italiano; infatti Creta era allora dominio veneziano ed il giovane iconografo si era trasferito nella città lagunare per approfondire l’arte pittorica e aveva anche trascorso un periodo di lavoro a Roma. «El Greco» è una sintesi culturale dell’Europa di allora: l’oriente bizantino ormai caduto in gran parte in mani islamiche (Domenikos aveva 30 anni quando la vittoria di Lepanto bloccò l’avanzata turca); l’Italia del folgorante rinascimento vissuto in due delle sue capitali, Venezia e Roma; la Spagna di Filippo II, all’apice della sua potenza e coi primi segnali di un iniziale declino.

Lascio al lettore curioso di approfondire contenuti e modalità dell’arte del Greco; magari potrebbe venirgli la voglia di andare a vederlo a Toledo, dove è in corso, fino a giugno, una gigantesca mostra che raccoglie quasi metà della sua ingente produzione. Essa fu sostanzialmente di soggetto religioso, con una serie di motivi ricorrenti e ripresi a distanza di anni: ritratti di santi, annunciazioni, natività, Gesù che scaccia i mercanti dal tempio, agonie nell’orto degli ulivi, crocifissioni.

In tutti i quadri del Greco che ho potuto vedere ho sempre rinvenuto un qualche elemento perturbante: un cielo fosco o misteriose architetture, turbe scomposte di angeli o posizioni inusuali dei corpi, colori aggressivi o contrastanti; e poi quella strana forma allungata – come la fiamma di una candela – che hanno sempre le figure. Non sono quadri di fronte ai quali ti metti a posto, ti gusti armonie di forme e colori.

Piuttosto sono vortici pieni di sobbalzi, di imprevisti; pongono domande, spingono ad approfondimenti, chiedono di muoversi, di non accontentarsi di una soddisfazione estetica e, tantomeno, di una ovvia devozione. È vero che sono stati quasi tutti prodotti per uno scopo devozionale – conventi, cattedrali, case private –, ma non certo per una devozione che abbia come scopo acquietare sentimentalmente oppure riaffermare sicurezze esteriori (siamo nella Spagna della cosiddetta “Controriforma”).  

I quadri del Greco non sono fatti per produrre una stasi ma un movimento; il movimento ascensionale che ha una fiamma ardente, il movimento che parte dalla terra – quella concreta, quotidiana: moltissimi ritratti di santi di tutti i tempi hanno come sfondo la concretissima Toledo dove il pittore abitava – e la trascina verso il cielo, a sua volta inteso come luogo di movimento ritmico, come mostrano gli angeli che occupano spesso la parte alta dei quadri, impegnatissimi a cantare e suonare, danzare. Quell’elemento perturbante nei quadri del Grego si potrebbe forse chiamare: inesausta tensione; che fa di un devozionalismo quietista una devozione dinamica.