Il giorno della Festa del Lavoro è diventato un giorno drammatico, questo purtroppo si sa. Ogni mattina il buongiorno appena scambiato con le persone care svanisce davanti alle notizie sulla disoccupazione giovanile, che ci raggiungono con la voce dei commentatori radiofonici, nel fruscio del giornale appena acquistato, sullo schermo – improvvisamente freddo e distante – del tablet. La parola “lavoro” sembra legarsi, in questi anni, a un sentimento di logoramento. Hanno cominciato a farci correre senza dirci quanto sarebbe durata, se il fiato ci sarebbe bastato, se le nostre gambe potevano reggere. Un milione di famiglie senza reddito, i risparmi consumati, le aziende chiuse o vendute a stranieri. E così via. E’ il romanzo di tutti i giorni. Tuttavia le crisi hanno sempre insegnato agli uomini cose importanti, e c’è da pensare che sia così anche questa volta. 

Forse è giunto il tempo di tornare a riflettere sul senso del lavoro. Forse, prima che dalla crisi, il lavoro è stato impoverito dal didentro, come conseguenza di un impoverimento antropologico. E’ stato ridotto alla sua dimensione occupazionale, salariale, insomma funzionale, così come l’uomo è stato ridotto alla sua pura manifestazione sociale, biopolitica. Lo stesso si potrebbe dire del denaro.

Ma, così come possiamo dire che il valore dell’uomo sta in qualcosa di più di quello che dice o fa, allo stesso modo possiamo dire che il valore del lavoro oltrepassa i limiti funzionali. Non si lavora solo per guadagnare soldi, o per fare carriera. Esso si lega alla responsabilità – ossia al dovere di rispondere di quello che si fa, a sé stessi e alla comunità – e all’esercizio stesso della propria umanità e dignità. 

Ricordiamo tutti, a questo proposito, le parole strazianti di Papa Francesco in Sardegna, qualche mese fa: “Non c’è speranza sociale senza un lavoro dignitoso per tutti.” Così “aumenta il lavoro disumano, il lavoro-schiavo, il lavoro senza la giusta sicurezza, oppure senza il rispetto del creato, o senza rispetto del riposo, della festa e della famiglia”.

Mi torna in mente il compianto Eugenio Corti, che all’immagine odierna del lavoro, orientata al profitto, contrapponeva quella tipica del popolo lombardo (ma non solo, s’intende), che considera il lavoro un valore in sé, staccato dalla sua componente economica. Il falegname coscienzioso vuole innanzitutto che la sua gamba di tavolo sia ben fatta, che renda stabile il tavolo, e se per ottenere il suo scopo dovrà impiegare cinque ore al posto delle due previste, non per questo aumenterà il conto del cliente.

Io credo che anche la determinazione del costo del lavoro risulterebbe più chiara, e le sperequazioni in termini di stipendio si ridurrebbero se fossero più chiari per tutti il senso e la natura del lavoro. Il lavoro è il modo dato all’uomo di realizzare l’essere: una campagna coltivata è qualcosa di più di una selva intricata, e la pietra acquista più senso (è più sé stessa) se diventa una casa anziché un mucchio di sassi.

Lo testimoniano, nelle nostre scuole sia pubbliche che private, tanti insegnanti, che si dedicano con passione straordinaria ai loro allievi, ben consapevoli del valore starei per dire sacro del loro lavoro, che niente ha a che vedere con i loro stipendi spesso ridicoli. In altre parole. C’è chi pensa che per mille euro si debba corrispondere un impegno da mille euro, per tremila uno da tremila. Ce l’ha insegnato un certo modo di intendere il sindacato. Ma proprio questo ha gettato il nostro paese nell’affanno. 

La dignità del lavoro si lega indissolubilmente alla persona e alla sua responsabilità. E sono certo che anche la ripresa economica non ne può prescindere.