A quarant’anni dal referendum che, fallendo nella tesi abrogativa, ratificò l’ingresso, anche in Italia, dell’istituto del divorzio, è possibile qualche riflessione di fondo su quanto si è sviluppato.

La vittoria della tesi referendaria rivelava come l’Italia del 1974 fosse già un paese profondamente diverso dall’icona industriale ed operaia che ne aveva accompagnato il decollo negli anni sessanta. Il boom economico, l’affermarsi di un benessere sempre più esteso, avevano già avviato quel processo di autonomia radicale del soggetto che costituisce il segno distintivo di ogni avanzamento della modernità come processo culturale.

Qualsiasi legame che tentasse di anteporsi alla soggettività emergente appariva come intollerabile e, ad avviso di molti, illegittimo. Il matrimonio inteso come vincolo permanente e ineludibile, si rivelava come totalmente dissonante dinanzi al diritto all’autonomia di ciascuno. Se la battaglia per il divorzio era una battaglia iscritta nell’emergente civiltà democratica, l’essenza di quest’ultima coincideva essenzialmente con l’autonomia radicale del soggetto.

Le cifre che segnalano l’aumento costante dei divorzi e le stesse iniziative di legge ai fini di un’accelerazione dell’iter procedurale danno l’idea di quanto la liberazione dai vincoli coniugali sia una richiesta estesa e pressante.

Tuttavia, accanto a questo processo ed in modo altrettanto pervasivo, si sta affermando l’importanza della relazione, il desiderio di essere riconosciuti nella propria individualità come nella propria personalità. Non si tratta affatto di un riconoscimento giuridico-formale, bensì di quello della propria identità sostanziale, che conduca all’essere presi in considerazione per ciò che si è.

Accanto ad un universo di soggettività autonome ed al loro stesso interno, la ricerca di un universo di relazioni significative si rivela altrettanto preziosa quanto può esserlo la libertà individuale. Si tratta di affetti e di riconoscimenti significativi che strutturano l’esistenza, le danno consistenza e ne fondano gli sviluppi.

Si possono cogliere facilmente i diversi livelli di articolazione di un tale processo.

Sul piano generale si stanno sviluppando sempre di più le reti di mutuo aiuto, la condivisione di spazi, beni e servizi la cui vera moneta di scambio è il legame sociale tra i contraenti. Nelle aziende come nelle scuole si moltiplicano le iniziative di impegno e di condivisione intorno a specifici progetti.

Ad un livello più impegnativo proliferano in molte parrocchie le forme di convivialità e di condivisione di progetti formativi e di iniziative culturali e caritative. La stessa presenza vistosa dei movimenti traduce in pieno – assieme a molto altro – quest’attenzione alla relazione, questa ricerca dei legami che fanno vivere e crescere. Ad un livello ancora più profondo una tale dinamica si produce anche all’interno delle famiglie, in particolare nel legame forte tra genitori e figli. Gli stessi rapporti tra i coniugi non ne restano fuori ma ne sono caratterizzati. Anche qui proliferano i tentativi sinceri – perché occultarlo? – di un progetto di vita a due che appaia degno di essere portato avanti, con tutte le risorse possibili.

La crescita delle separazioni e dei divorzi, più dello svincolo dai legami tradizionali, traduce in realtà e molto di più la fine mesta di questo stesso progetto di vita. Esso segna il declino di una possibilità nella quale si è sinceramente sperato e sulla quale ci si è profondamente coinvolti. Questi quarant’anni ci restituiscono il quadro di un’Italia che ha fatto i conti con il dolore di un progetto familiare del quale, riconoscendone l’irrealizzabilità, ha avvertito come inevitabile la fine.

Ma questi quarant’anni hanno anche fatto emergere il carattere ineludibile di quanto comunque ogni relazione coniugale ha realizzato, in termini non solo di beni costituiti, ma anche di vite nuove generate, vite che restano da sostenere, aiutare e custodire. Paradossalmente, proprio questi quarant’anni di esperienza della reversibilità del patto coniugale, dimostrano come il matrimonio non sia mai realmente archiviabile, qualunque sia l’istituto giuridico che vi ponga fine.

Ora è proprio su questa cornice di un’umanità ferita che si comprende la sensibilità tutta pastorale dell’attuale pontefice. Riconoscere il dolore di quanti vivono l’esperienza del divorzio significa anche riscrivere in modo completamente diverso quella che non è l’euforica riconquista della libertà, quanto il riconoscimento di un limite umano da abbracciare e da accompagnare nel ritorno al desiderio di costruire.