Quando queste poche righe verranno lette non so come sarà il cielo, ma adesso che le sto scrivendo è uno spettacolo. Già ieri era una meraviglia di azzurro: intenso, profondo, trasparente, capace di rendere nitida ogni cosa, in particolare il verde nuovo degli alberi e della poca erba che anche a Miano resiste qua e là. Poi nel pomeriggio si è alzato un insolito vento che ha pulito ancora di più – e non sembrava possibile – l’aria. E così stamattina il luminoso saluto del cielo è autenticamente glorioso.

«Nulla è splendente come Primavera» ha scritto Gerard Manley Hopkins (anche lui compreso, come Benson che ho citato settimana scorsa, nella “Biblioteca di papa Francesco”) in un sonetto del 1877. Ovviamente non è stato l’unico a cimentarsi nel tentativo di descrivere la sorprendente bellezza di questa stagione, né l’unico a provare a capire i sentimenti e le domande che tale bellezza suscita. Il poeta inglese, che era anche sacerdote gesuita, ha uno sguardo particolarmente acuto nello scovare i dettagli apparentemente più minuti; forse sulle orme del suo Maestro che si chinava commosso sul fiore del campo. Nella citata poesia, ad esempio, Hopkins parla delle uova del tordo che «tondeggiano come cieli piccini»; sembra, infatti che questo uccello deponga uova di colore azzurro chiaro, ma io non ne ho mai viste e quindi quest’immagine non mi commuove.

Commuove, invece, l’acutezza del poeta che non cede a nessuna forma di sentimentalismo e, tantomeno, di compiacimento estetico. Descritta la primavera con brevi pennellate, Hopkins arriva subito alla domanda centrale; la domanda che non si poteva evitare in questi giorni di cielo splendente: «Cos’è tutta questa linfa e tutta questa gioia?». Come «cos’è»? È la primavera, la ciclica rinascita, l’ovvio ritmo delle esistenze. Risposta del tutto insoddisfacente. Risposta che non dà ragione della emozione di fronte al cielo di oggi, che non spiega la mobilitazione che ci si sente dentro.

Imparagonabilmente più interessante è la risposta del poeta: questa linfa e questa gioia sono «un’eco della dolcezza terrestre, nel primo giardino». Dunque il cielo sorprendentemente terso ci affascina perché fa risuonare la corda profonda e nascosta della purezza cui originariamente siamo destinati. Come se ci ricordasse che, in fondo, siamo fatti per giornate sempre così limpide, per orizzonti sempre così vasti, per chiarezze sempre così evidenti. 

Ma quell’innocenza l’abbiamo perduta. Non si tratta di una presa di posizione teorica, è una semplice constatazione: il cielo cambierà e tornerà l’opacità dei giorni soliti, la bruttezza di un’aria piena di afa e di smog. Ci si potrebbe rassegnare, con un po’ di scetticismo misto a malinconia. Non così Hopkins, che termina il suo sonetto con una domanda al Redentore affinché noi non perdiamo il desiderio della purezza: «Oh prendi, fermala, prima che sazi, prima che s’intorbidi, Cristo, fatta aspra nella colpa». La pura «luce di maggio», infatti non è solo ricordo di una passata innocenza. È anche una promessa.