In Italia sembra essere nata una nuova idolatria: è l’idolatria per il cibo. Televisione e giornali ne sono invasi, i grandi cuochi ormai sono considerati a livello da star e imperversano dappertutto fuorché nelle loro cucine di competenza. Il fenomeno imprenditoriale mediaticamente più coccolato degli ultimi anni, è un fenomeno che naturalmente riguarda l’alimentare. Non c’è personaggio di successo che non apra un ristorante o non proponga una sua produzione di vini: il cibo, quello di qualità, quello obbligatoriamente sofisticato e sfizioso, diventa uno status symbol. È un trend “culturalmente corretto”, che trova tutti gli intellettuali e decisori allineati. Il cibo è antidoto alla crisi, non tanto perché affogandosi a tavola si dimenticano le magagne, ma perché sembra essere stato identificato come il buon business a cui legarsi per l’agognata ripresa. L’Expo sullo sfondo, dovrebbe consacrare questa certezza, anche e il tema di fondo si è un po’ perso nella confusione, ed è francamente difficile immaginare orti e relative prelibatezze in quell’appezzamento di terra circondato da quattro autostrade perennemente trafficatissime (con una linea dell’alta velocità in aggiunta…).

Il futuro dell’Italia è legato a campi e fornelli? Sembrano crederci davvero i quasi 50mila ragazzi che come ha reso noto Coldiretti, hanno scelto questi indirizzi iscrivendosi alle superiori, quasi il 10% del totale, con un aumento secco che è andato a penalizzare soprattutto gli indirizzi economici e amministrativi. Intendiamoci, l’alimentare è una carta formidabile che l’Italia ha nel suo portafoglio industriale: secondo settore in assoluto per fatturato dopo la meccanica, ma primo per tasso di crescita, tutta dovuta all’export. Quindi teniamocelo stretto, investiamoci in risorse e in ricerca. Ma in questa idolatria del cibo l’industria sembra centrare poco, anzi spesso viene quasi demonizzata perché il suo orizzonte è la produzione di massa. Per dirla con la classica battuta della regina Antoinette, l’industria fa pane e non brioche. 

Personalmente detesto quei piatti incomprensibili e anche un po’ sadici che girando tra i canali vedo scodellare dalle star della nuova cucina o dai loro poveri schiavi – concorrenti; personalmente non capisco chi di fronte ad una bottiglia di vino si sdilinquisce come se fosse davanti ad una Madonna di Raffaello. 

Ma queste sono ovviamente valutazioni mie. Quello che mi pare invece oggettivamente un po’ parossistico è il livello iperbolico che il cibo sta occupando nel tempo e nell’attenzione delle persone. È un fenomeno di cui Eataly è un po’ la consacrazione più clamorosa, sia per le dimensioni del suo successo, sia per quella sorta di culto che ha sviluppato. Tanto che c’è chi sogna il futuro dell’Italia come un enorme, pantagruelico mercato di sfizi, che non si né come né chi sarà mai in grado di produrre su quella scala.