Una volta andai a sentire un psichiatra convertitosi al cristianesimo parlare della sua conversione. In quell’occasione disse: “Il segno che lo stare insieme di un gruppo è patologico si ha quando i componenti si identificano con la loro lotta contro ciò cui si oppongono, più che con la cosa che propongono; quando si lasciano identificare in chiave negativa più che positiva”. Questa sua osservazione mi torna spesso in mente in questi mesi quando sento sorgere dentro di me il mio “no”, appassionato, urgente, netto e deciso alla proposta ormai vincente nella nostra società di scartare definitivamente la famiglia – l’unico rapporto per sua natura generativo del futuro umano – per far spazio alla fantasia dell’autonomia della persona, anche e soprattutto nel campo della soddisfazione sessuale, eliminando ogni riferimento basato sulla realtà della natura umana come un dato e così privilegiando immagini che nascono dal rifiuto della realtà.
La frase di quello psichiatra mi viene in mente quando mi chiedo se la proposta quotidiana che vivo della comunione col Padre attraverso la presenza del Figlio per la forza dello Spirito Santo nella Chiesa è altrettanto appassionata, urgente, netta e decisa quanto la mia opposizione al volto minaccioso del male che sorge fra di noi. La risposta che si presenta non è sempre molto rassicurante.
Magari ha a che fare col fatto di essere cresciuto in una comunità dei famosi “figli dei fiori”, educato da mia madre e forse in modo più importante da mia sorella maggiore in modo di farmi abbracciare una lettura femminista della realtà, con la sua intolleranza per ogni “imposizione” alla natura umana, col suo grido rabbioso di liberazione da ogni visione tradizionale che mette in catene le donne, nega la dignità agli omosessuali, eccetera. Tanto che una notte la mia fidanzata mi chiese tutta infastidita: “Ma insomma, tu ti consideri uomo o no?” Ed io: “No. Mi vedo prima come persona, e poi come uomo”.
È stato l’incontro imprevedibile con Cristo nella comunione della Chiesa che mi ha liberato dalla paura della realtà tramite una riconciliazione col Padre, col Mistero da cui tutto emana. Il cambiamento radicale è stato nel mio rinascere con la curiosità di scoprire, momento dopo momento, la buona volontà del Padre dentro le circostanze di un mondo confuso. Questo mi ha dato un gusto di abbracciare la realtà prima impensabile, e la certezza che la nostra liberazione sta più nello scoprire il suo piano per noi che nel nostro progettare secondo i nostri disegni.
Ora il mondo in cui Lui mi ha tratto sembra tutto vittorioso. Ed io rimango con la domanda se la mia vera passione, la mia più originale identità stia più nella mia sdegnata opposizione allo svuotamento dell’esperienza umana che si verifica ormai scopertamente in tutti gli ambiti di potere che vediamo, o nell’umile e grato riconoscimento e nella lieta identificazione con una presenza che è venuta così, semplicemente, in mezzo a noi: “Non spezzerà una canna già incrinata, non spegnerà una fiamma smorta, finché non abbia fatto trionfare la giustizia”.
Sono grato fino alle lacrime che il Signore non sia venuto per eliminare il male, ma per seminare la vita eterna fra di noi, perché ci sono i momenti nei quali, ora come in passato, se avesse voluto eliminare il male dal mondo avrebbe dovuto eliminare me. Invece non vuole eliminarmi, ma salvarmi. Che noi possiamo vivere questa coscienza nella lotta che ci aspetta, definiti dalla gratitudine e dalla volontà di testimoniare la sua salvezza piuttosto che avere la vittoria sul male, una vittoria che − in ogni caso − è già Sua.