Questa quinta puntata della biografia di Charles Péguy in previsione del centenario della morte è senz’altro la più difficile da scrivere. Sarebbe più semplice se si potesse parlare di «conversione» come altre sono successe in quegli stessi anni; pensiamo a quella di Paul Claudel che entrò in una chiesa ateo e ne uscì cattolico. Sarebbe inoltre più semplice se l’interessato avesse scritto un dettagliato diario coi passi che l’hanno ricondotto alla fede; ma Péguy non amava mettere in piazza i propri moti interiori. 

Per di più è lui stesso a rifiutare il termine «conversione»: «È attraverso un approfondimento costante del nostro cuore nella stessa via, non è affatto per un ritorno indietro che noi abbiamo trovato la via della cristianità. Noi non l’abbiamo trovata ritornando. Noi l’abbiamo trovata alla fine». Si tratta, quindi, di capire la dinamica di questo «approfondimento» lungo la «stessa via».

Ho dedicato la puntata del mese scorso a cercare di spiegare che il modo di ragionare e di agire di Péguy non era determinato dal privilegio dato al pensiero, ma dall’ubbidienza all’avvenimento della realtà così come si pone. Tale lealtà ha significato accorgersi che la cultura dominante stava inaridendo l’umanità; dove trovare le risorse per una rinascita? Péguy ripensa al «catechismo di quando eravamo bambini»; l’aveva imparato con la stessa gioia con cui aveva appreso l’insegnamento laico dei suoi maestri. Ora si accorge che proprio in quel «catechismo» sta la nuova linfa che cerca.

Perché? Perché il cristiano non bara su che cosa sia l’uomo e su quello di cui ha veramente bisogno; non fa come l’uomo «moderno» che, accecato dal mito del progresso, finge di non vedere l’inesorabile decadimento prodotto dal tempo e, obnubilato dalla pretesa della scienza, appiattisce tutto in schemi senza riconoscere l’irriducibile individualità di ogni cosa. Il cristiano sa che ogni uomo è una storia unica e sa, da quando l’eterno è entrato nell’effimero, che il tempo non è più sprofondamento verso il nulla. E lo sa non perché l’ha letto sui libri di teologia, ma perché una medesima esperienza umana, carnale, si è trasmessa di padre in figlio, una stessa fatica e una comune speranza hanno attraversato i secoli, perché «il peccatore dà la mano al santo, il santo dà la mano al peccatore. E tutti insieme, l’uno con l’altro, l’uno tirando l’altro, essi fanno una catena che risale fino a Gesù».

Così la preghiera del cristiano ridice il Padre nostro pronunciato quella prima volta da Gesù stesso, la speranza che vive prosegue quella del buon pastore che cerca la pecora smarrita, la malattia che sopporta lo fa partecipare ai patimenti della croce, il lavoro che compie replica quello del Padre nella creazione e quello del Figlio nella bottega di Nazaret. Insomma, da quel primo momento in cui Dio «si è scomodato» per implicarsi nella vicenda umana, nulla è più destinato all’inaridimento, tutto vale.

A patto che il cristiano stesso non cada nel tranello «moderno» e faccia di quello che è per sua natura avvenimento un «sistema» di pensiero, di morale, di organizzazione, di devozione. Proprio perché invischiati in questa tentazione, molti cattolici a lui contemporanei non hanno compreso Péguy e anzi hanno guardato con sospetto alla sua fede. Che, invece, ha una potenza profetica che è indubbiamente necessaria anche oggi.