Forse non a tutti piacerà il nuovo presidente ucraino, Petr Porošenko, oligarca e magnate del cioccolato, e qualcuno si chiederà: ma ne è valsa la pena? 

Alla prima questione si può osservare che non a tutti piacerà ma è stato eletto al primo turno col 54% dei voti. E alla seconda si può rispondere con l’osservazione di Ol’ga Sedakova che bisogna considerare innanzitutto la qualità dello scopo che ci si pone: “quello che avviene non è vano, ma ha uno scopo diverso dal risultato immediato. Ha un altro senso, se vogliamo (dato che di solito non distinguiamo neppure lo scopo dal senso). Ad esempio, il punto non è avere un altro presidente (neanche lui ideale, di certo) ma dar prova di dignità umana, il che è già uno scopo in sé”.



Se dobbiamo parlare della dignità umana e della responsabilità che ne è uno dei corollari fondamentali, la vera partita riprende a giocarsi da questo momento, come diceva Aleksandr Filonenko pensando al dopo Majdan: molto dipenderà dalla tenacia degli ucraini nel cercare di mantenere il controllo sulle azioni dei politici, anche se non più direttamente dalla piazza ma in forme nuove e istituzionali. E segnali di questa tenacia e di questa responsabilità nelle elezioni se ne sono pure avuti.



Innanzitutto, nonostante la disinformazione diffusa, e la conseguente paura di una vittoria dell’estremismo fascista di “Settore destro”, le votazioni presidenziali hanno messo in luce le reali dimensioni dell’estrema destra nel panorama politico ucraino: il suo candidato Dmytro Jaroš ha preso meno dell’1% (lo 0,69% per essere precisi); l’altro leader della destra meno radicale, Tjagnibok ha preso l’1,17%; insieme non raggiungono il 2%. E per completare il panorama, all’estremo opposto, il candidato comunista Simonenko ha preso l’1,53%. Questo vuol dire che gli scenari dipinti da tanti media erano totalmente irreali e ben lontani dal vero: l’Ucraina non è preda di invasati nazionalisti spalleggiati da qualche potenza straniera; è alla ricerca di stabilità e libertà, dovendo fare i conti con un problema di conciliazione che gli eventi degli ultimi mesi hanno riaperto. 



E già in questa prospettiva le elezioni hanno dato una prima risposta: senza bisogno di ballottaggio, il paese ha fatto la sua scelta. Sono stati smentiti gli amanti delle dietrologie e gli analisti che prevedevano la “guerra delle preferenze” e “tutti i soliti brogli che hanno sempre accompagnato le elezioni ucraine”. 

Cosa succederà domani lo si vedrà ad ogni nuova mattina; per adesso sta di fatto che si è vista in azione una responsabilità personale inattesa tra gente abituata a demandare ogni responsabilità ai politici di professione, e che questa volta invece si è mossa numerosa (il 61%) per andare a votare. 

E in questa vittoria rapida e partecipata si è visto anche un altro elemento significativo: il vincitore Porošenko è russofono, e non sarà più così semplice liquidare ogni questione con l’unico argomento che l’Ucraina sarebbe un paese diviso su base etnica o tra filo europeisti e filorussi. È a partire da questi pochi ma decisivi elementi (una riscoperta dignità, una nuova responsabilità, un desiderio di democrazia) che si dovrà far fronte alla tragedia che ancora è in atto ai confini orientali, la guerra. Una guerra che miete vittime reali e che si insinua sempre più nei cuori e nelle menti man mano che l’elenco delle vittime si allunga. Se durante il Majdan i dimostranti in piazza ancora scandivano: “Alzati Russia!”, oggi questa cordialità è gravemente compromessa soprattutto dalla guerra nel Donbass. Già si avverte la tentazione di non considerare alla stessa stregua i morti propri e quelli della parte avversa. E spesso, da una parte e dall’altra, si è tentati di credere alla propaganda, e monta il rancore verso i nemici creati dalla propaganda stessa. È la sfida principale alla quale deve rispondere la società ucraina, ed è una sfida che alcuni settori mostrano di accogliere. 

Innanzitutto lo si vede nella pur faticosa concordia tra le Chiese cristiane; ad esempio con una Chiesa ortodossa ucraina che cerca in tutti i modi di rintuzzare le fughe in avanti di singoli vescovi e sacerdoti tentati dal nazionalismo o dalla violenza (come il metropolita Agafangel di Odessa, costretto ad allontanarsi dalla cattedra per aver dato manforte ai filorussi); e ancora lo si vede nel suo continuo ricordare a tutti la necessità di ascoltare “ogni voce” perché lo scontro civile ritorni ad essere un confronto umano tra posizioni diverse. Sono richiami importanti in un mondo in cui le diverse Chiese hanno sempre considerato il patriottismo a senso unico come un importante valore religioso, e sono un’occasione di chiarimento, per abbracciare con dolorosa umiltà un percorso di purificazione, certi che è Cristo a purificare l’offerta ed ad aver offerto per primo il perdono.

E con tutti i limiti di un cammino che s’inizia, la coscienza del valore sociale del perdono sembra raggiungere anche la società civile, che sta facendo dei passi in varie città, a Kiev, a Charkov, per aprire il dialogo con gli oppositori. Del Majdan resta ben chiara la coscienza che si deve rimettere continuamente al centro l’uomo con tutta la sua complessità, cercando di comprendere le ragioni dell’altro anche quando ci sembrano irragionevoli perché, uscendo allo scoperto, fuori dagli schieramenti, si possa andare incontro a quelli dell’altra parte, per vederli in volto. 

Vederne il volto reale e dolente, com’è stato per Michail Gavriljuk, che catturato e torturato da due Berkut sul Majdan il 22 gennaio, ha chiesto clemenza per loro ai giudici che in questi giorni li hanno processati. E il perdono è stato possibile anche pochi giorni fa, dopo la carneficina di Odessa del 2 maggio, quando il capo dei nazionalisti ucraini e il rabbino capo insieme hanno preso secchio e pennello e sono andati a cancellare le scritte antisemite sui muri. 

Molto dipenderà dalla libertà degli ucraini, dalla loro creatività e dalla fede in una verità più grande di quella delle singole parti. È una scommessa che ogni cittadino ucraino ha di fronte, per la sua e la nostra libertà. E verrà vinta se ciascuno vincerà l’istintivo egoismo e mostrerà agli egoismi locali dell’Unione Europea che vale la pena mettere al vaglio la propria identità cercando le ragioni profonde della convivenza con chi è diverso.