In Francia un bambino di dieci anni, malato di cancro, trascorre gli ultimi mesi di vita accompagnato da un padre assiduo che si gioca tutti i permessi e tutte le ferie possibili per stargli accanto. Ma i giorni non bastano.

I colleghi si domandano cosa possano fare e la risposta è semplice ed umana: fare una colletta dove, al posto del denaro, i colleghi mettono insieme i giorni di ferie non godute per darle al padre, già terribilmente provato. La direzione della fabbrica approva, Il padre trascorre 170 giorni accanto al figlio: gli ultimi della vita di Mathys (questo è il nome del bambino). La camera dei deputati interviene facendo sì che il miracolo della solidarietà umana si possa ripetere ovunque vi siano situazioni che muovono il cuore e spingono a dare del proprio affinché il dolore possa essere meno terribile di quello che già è.

Adesso il caso Mathys è diventato legge. Le persone, se vogliono e sotto tutela dell’anonimato, sono libere di donare i propri giorni di ferie non godute a chi, dinanzi al dolore indicibile di un figlio minore in fin di vita, ha speso tutto quello che l’azienda e la legge potevano concedergli. Uno Stato che riconosce il diritto alla solidarietà e non lo ostacola, anzi lo tutela, si assicura una risorsa impareggiabile. Da oggi tutti sono meno tristi: lo è il padre, che ha avuto la possibilità di stare vicino al proprio figlio e adesso ha creato un’associazione, lo sono i colleghi che si sono “alzati in piedi” giocandosi la loro parte migliore nell’offrigli il meglio che avevano, lo è l’azienda nella quale diventa bello andare a lavorare, lo sono i Deputati che, per un’ora, hanno dimostrato lungimiranza e recuperato dignità, lo sono i francesi che, anche solo per pochi minuti hanno avuto la sensazione di detenere ancora una riserva di solidarietà autentica.

In Italia, dove la notizia è immediatamente rimbalzata, qualcuno ha fatto osservare che di queste cose se ne dovrebbe occupare lo Stato e non i colleghi che si sacrificano. È un errore, rivela un’opinione diffusa e rende visibile una tendenza alla delega che, dopo aver ingessato lo Stato fino a farne un gigante inamovibile, continua ancora a reclamare un welfare che non può esistere, né può ulteriormente riprodursi senza provocare danni profondi. Esiste infatti un livello dei rapporti umani che solo il soggetto, sola la singola persona, può valutare e gestire. Solo il singolo infatti, in piena libertà e sotto copertura dell’anonimato, può valutare e scegliere di agire. 

La sussidiarietà non è una concessione ma una necessità, qualsiasi intervento dello Stato (creando magari una nuova serie, l’ennesima, di diritti automatici) non potrebbe sostituire quello che il caso Mathys ha attivato: la solidarietà tra pari, l’attenzione all’altro.

Di fatto l’unica risorsa che fa bene non solo a chi ne beneficia ma anche a chi la dona. Solo una società che è capace di assicurarsi una tale possibilità, la sa suscitare, apprezzare e valorizzare, può avere solide speranze di crescita e di sviluppo. Solo a condizione di recuperare pezzi di solidarietà, di mutuo aiuto, solo riconoscendo il prossimo là dove realmente è, è possibile attivare quelle energie vitali così preziose per ogni collettività. Nessun welfare, nessun “servizio sul territorio” può dare quello che i colleghi di questo padre sfortunato sono riusciti a produrre: un gesto di gratuità, semplice e essenziale al tempo stesso.

Al contrario, una società i cui individui si girano dall’altra parte delegando allo Stato quell’impegno, libero e gratuito del cuore, persegue fino in fondo un mito degli anni settanta duro a morire: quello di uno Stato onnipresente al quale incombe il dovere di garantire quello che solo i rapporti umani sono in grado di assicurare. In realtà, con il loro gesto, i colleghi non hanno solo donato i loro giorni di ferie arretrati, ma hanno anche ridisegnato un mondo più umano, nel quale è bello vivere. Di questo spessore e di questa attenzione al prossimo c’è oggi sempre più bisogno, non possiamo privarcene.