Cambia il Re e non bisognerebbe essere sorpresi. Dopo 39 anni di monarchia costituzionale, “l’anima repubblicana” degli spagnoli, sebbene abbia avuto qualche segno di ripresa, è ancora dormiente. La Costituzione del 1978 conferisce al monarca competenze poco più che simboliche, inferiori a quelle di qualunque presidente di una delle repubbliche vicine (Italia, Portogallo, Francia). Juan Carlos è passato in secondo piano dopo la stabilità democratica ottenuta a seguito del fallito colpo di Stato del 1981. Da allora il suo lavoro è stato importante solo come “ambasciatore all’estero”.

E allora perché tanta agitazione dopo l’annuncio dell’abdicazione? Un cambio di corona pacifico non si vedeva in Spagna da oltre cent’anni, quando Alfonso XXIII ereditò il trono da suo padre Alfonso XXII attraverso la reggenza di Maria Cristina. La proclamazione di Felipe VI il prossimo 19 giugno implica il consolidamento della seconda restaurazione. La mancanza di comportamenti trasparenti della famiglia reale (caso Urdargarín) e la disaffezione verso le istituzioni hanno fatto crescere il repubblicanesimo di sinistra. Il nazionalismo secessionista in Catalogna e nei Paesi Baschi non si riconosce, com’è logico, nel simbolo dell’unità nazionale. È normale quindi che in questo quadro ci sia una certa inquietudine.

In realtà, non ci sono però molte incertezze. I comunisti all’epoca della Transizione furono i primi monarchici e finché esisterà l’intellighenzia di centrosinistra che ha sostenuto la monarchia dagli anni ‘80 per evitare un Presidente della repubblica di destra non c’è da temere. Tuttavia c’è una specie di inquietudine e di desiderio inconfessato che con Felipe VI qualcosa cambi. Il regno di Juan Carlos è stato buono e il suo operato decisivo per la transizione alla democrazia. La sua neutralità costituzionale è stata eccelsa e agli spagnoli poco importava di quello che avveniva nella sua vita privata. Nonostante questo, il Re se ne va con i peggiori dati nei sondaggi da quando è al trono.

Si può dare la colpa alla gente, rimproverarla per non considerare le cose nei giusti termini. John Gray dice che “la politica è l’arte di ideare rimedi per mali ricorrenti: non è un progetto salvifico, ma semplicemente una serie di risorse”. Possiamo pensare che gli spagnoli, e gli europei in generale, si siano arrabbiati perché hanno riposto una speranza di salvezza nelle istituzioni. Ci sarebbe stato quindi un ritorno al sentimento utopico degli anni ‘70, che si esprimeva in un marxismo edonista.

La reazione dovrebbe essere tipica di un pensiero liberale coerente, ma mettere la politica a posto non vuol dire alzare le spalle davanti all’insoddisfazione che molti provano nel sentire che la vita pubblica è lontana da quella reale, dalle necessità autentiche. E questo non riguarda solo i casi di corruzione, è piuttosto per un formalismo, un’inerzia, un predominio assoluto della gestione che causano astio e scetticismo. Vengono ripetuti i vecchi valori e risuona la loro eco, senza che vengano ascoltati dalle nuove generazioni. Di fatto sono diventati un codice indecifrabile per i più giovani e per quelli che non lo sono. Si è rotta la catena della tradizione. Per esempio, stiamo celebrando i 70 anni dello Sbarco in Normandia e i nuovi cittadini europei vedono solo delle foto in bianco e nero.

Il desiderio irrefrenabile di un cambiamento affinché la vita pubblica sia almeno solamente l’ombra della verità si esprime con la grammatica di sempre. Bisogna quindi tornare a imparare a leggere. A quel punto potremo cominciare a scrivere.