Il male è il male. I sospetti diventati realtà, l’assassinio di Motta Visconti ha il volto peggiore che si potesse pensare, quello del “nemico intimo”. Si vorrebbe girar pagina, parlare di altro, ma i giorni passano e il dolore resta: dolore per le vittime, ma anche smarrimento per una natura umana che può degradarsi fino a punti impensati e che, anche dopo tutto l’orrore, restano tali. Si vorrebbe girar pagina, ma un simile delitto tra le mura di casa, tra le case della propria comunità fatta di gente onesta e magari anche lavoratrice, magari anche timorata di Dio e impegnata nelle attività parrocchiali, oppure, inserita nei gruppi di volontariato a difesa dell’ambiente, tutto quest’orrore non può non interrogarci. Per di più – è un fatto – gli episodi non sono più isolati ma proseguono, con una cadenza incessante. Oggi non è ieri: che lo si voglia o no, oggi emergono i mostri. Nella confusione di una società alla deriva, incapace di formare ed educare, pronta a baloccarsi con gli ultimi “piccoli e volgari piaceri” acquistati a interessi zero, incapace di disegnare un qualsiasi futuro, emergono le pulsioni più antiche fatte di possesso, di vendetta, di incapacità totale di guardare e riconoscere l’altro, anche quando ha gli occhi della persona amata. Le pulsioni comandano sovrane sul singolo, lo determinano e lo rendono schiavo facendolo precipitare nell’abisso.

Non ci sono cause, non ci sono condizionamenti di nessuna natura. L’utopia moderna di un male provocato dalle strutture sociali, il sogno sociologico di Rousseau, del quale noi moderni siamo tutti eredi, si infrange con mesta miseria e profondo smarrimento dinanzi a tanta deriva. Risalire il fiume dei delitti privati che hanno sconvolto le nostre anime negli ultimi mesi ci riconsegna sempre lo stesso referto: le tanto ricercate “cause” non ci sono. La via breve, la scorciatoia sociologica ci è preclusa. Il facile sentiero degli anni sessanta, dove ogni miseria veniva ricondotta alla marginalità materiale e morale, ed ogni marginalità era la conseguenza degli assetti sociali ed economici, da risolvere e superare con mutamenti politici, si è rivelato un labirinto inconcludente, un vero e proprio parco-giochi della ragione ottimista e illuminata nel quale ci siamo consapevolmente baloccati. Il male è il male, e non ha cause.

Ma se non ha cause, il male – proprio come il bene – ha dei percorsi, delle spinte e delle logiche che lo fanno apparire plausibile, possibile. La tentazione – in particolare quella assassina e omicida – ha i suoi argomenti, il suo delirio, la sua folle catena di ragionamenti personali che la rendono accettabile a chi vi ricorre, fino al punto, da presentarla come una soluzione ammissibile, anzi l’unica soluzione possibile se si vuole far tacere il proprio dolore interiore che non si sa nominare, ma che devasta mente e cuore, fino alla follia.

Ma se così è, allora il chiamare il male con il suo nome, il non archiviarlo come semplice “conseguenza”, ma presentarlo come scelta consapevole di una lucida e conseguente follia è il primo passo per rintracciarlo. Uscir fuori dal parco giochi della ragione ottimista, abbandonare il sentiero della ricerca delle cause vuol dire incamminarsi per le strade che riportano alla conoscenza dell’essere umano e della sua natura. Occorre risalire il fiume della storia fino al punto di rottura, fino a quel concetto di “peccato originale” e di “natura umana corrotta” del quale ci siamo con troppo fretta sbarazzati e che adesso riemerge, con tutto il carico tragico di follie senza nome. Occorre allora, con Agostino, tornare a pensare l’uomo come mortalmente fragile, come costituito da una natura ferita e quindi esposta al degrado di sé. Un natura  che, proprio per questo, porta a scegliere tra bene e male, tra il riconoscimento dello sguardo dell’altro (perche l’altro è sempre riassunto nel volto) ed il suo disconoscimento, il suo annullamento, la sua soppressione.

Avere girato le spalle a questa verità, non averne più parlato, non ci ha certo giovato ed oggi ci troviamo tutti, sgomenti e senz’armi, dinanzi ad efferatezze infinite, tra le nostre provincie migliori e tra persone che ci somigliano in molto e che, fino a ieri, abbiamo ritenuto come le più affidabili. Dinanzi a tutto questo dolore dobbiamo convertirci culturalmente a pensare al male come ad una realtà che esiste, nella sua radicale assolutezza. Così come dobbiamo ritornare a pensare che la scelta tra bene e male, tra l’arrendersi al volto dell’altro – che è la “saggezza dell’amore” – ed il negarlo nella sua dignità, nella sua delicatezza, nella sua stessa esistenza, si chiama “peccato” ed è la vera scelta cruciale della nostra esistenza, l’unica che veramente conta, l’unica della quale saremo, sempre e ovunque, chiamati a rispondere.