Se la vita è solo un tweet

C'è qualcosa di molto profondo che sta avvenendo nella società italiana e che nessun giornale, tv o social network sembra voler documentare. L'editoriale di FEDERICO PICHETTO

C’è qualcosa di molto profondo che sta avvenendo nella società italiana e che nessun giornale, tv o social network sembra voler documentare. Se ci guardiamo intorno, non possiamo non renderci conto che troppo spesso i nostri bambini guardano ai genitori e ai maestri con un atteggiamento fortemente rivendicativo, che in ogni ambito adolescenziale le amicizie sono appese ad un sms, ad un saluto, ad una parola di troppo, che gli adulti si amano e si odiano nel giro di una primavera e che, come un branco stremato dalla fame, si contendono ogni briciola di successo o di potere che la vita può offrire. 

Nemmeno la comunità cristiana appare immune da tutto questo: dentro la Chiesa cattolica, benché spronata dalla forza della testimonianza del Papa, affiora fortissima la tentazione di sostituire all’amore per il reale l’amore per il “mio” pensiero, per la “mia” comprensione della dottrina, per la “mia” verità, combattendo ogni sensibilità diversa dalla propria e trasformando il cristianesimo da fenomeno plurale a monolitica macchina da combattimento al servizio di un’ideologia travestita da fede. 

In tutto questo proliferare narcisistico la vittima è dunque la realtà: commentare, interpretare e manipolare paiono essere diventati gli imperativi che soffocano il quotidiano e lo sottraggono all’incontro con il nostro cuore. Lo abbiamo visto nei tristi fatti di cronaca di questi giorni, lo vediamo nei Mondiali di calcio in Brasile, lo respiriamo quando leggiamo i commenti all’esame di maturità: il clima culturale in cui siamo immersi è dominato dal tentativo di tutti, cattolici e liberali, marxisti e nichilisti, di appropriarsi della realtà per raccontarla, per dirigerla, per contenerne l’impatto col nostro “Io”.  Ma di che cosa il mondo ha paura? Di che cosa noi abbiamo paura? Con grande semplicità si potrebbe dire che ciò che ci terrorizza è che gli altri non capiscano, che qualcun altro faccia loro intuire le cose prima di noi, impedendo alla nostra “visione del mondo” di affermarsi e di rafforzarsi. 

In altre parole, ciascuno di noi ha paura della morte. Non fisica, anche se alla base c’è sicuramente questo, ma morale, ideologica. Il nostro mondo è prigioniero del terrore di essere arrivato “in fondo”, di poter essere dominato – in un futuro non troppo lontano – totalmente dal nemico: siamo uomini e donne con speranze fragili, poco radicate, che temono che la libertà degli altri le cancelli e le porti via. Definitivamente. Temiamo che i nostri figli si allontanino dai nostri ideali, che i nostri amici ci diventino ostili, che nostra moglie o nostro marito ci porti via quel poco di bene cui noi abbiamo diritto. Ma la vita, così, diventa un inferno: diventa una continua corsa a twittare, a chiosare, a contenere. E la realtà, con tutta la sua portata e le sue domande, ci passa di fronte senza dirci niente, senza riuscire a penetrare la corteccia della nostra paura. 

Nelle mie piccole parrocchie di campagna tutto questo si traduce nel timore che il “paesello” finisca, muoia, nell’attaccarsi strenuamente ad ogni forma o tradizione senza provare a coglierne il senso e il valore ultimo, nel temere che ogni decisione – pubblica o privata che sia – nasconda un’insidia o una minaccia. Con un po’ di cinismo, ma neanche troppo, si potrebbe dire che si capisce perché poi i mariti arrivino ad uccidere le mogli, le madri si spingano ad eliminare i figli, i gruppi si permettano di espellere surrettiziamente alcuni dei loro membri più scomodi: siamo tutti ostaggio della paura della morte. Eppure già duemila anni fa i Sadducei e i Farisei avevano le stesse idee: eliminare per sopravvivere, uccidere Cristo per non essere inficiati e per non essere costretti a cambiare. Oggi quelle idee sono penetrate nel nostro quotidiano e l’altro, col volto del marito, della moglie o dell’amico, è diventato il nostro nemico. Ma questo racconta di speranze fragili, di certezze deboli, di qualcosa che – strutturalmente – è già votato alla morte e che la presenza degli altri, con la loro libertà e la loro originalità, non fa altro che mostrare e accelerare. 

Questa nostra vita non è qualcosa da conservare e da trattenere, non è qualcosa da dirigere e da nascondere alle intemperie: è qualcosa da giocare e da mettere in discussione, è qualcosa che nasconde il bisogno fortissimo di essere toccata e raggiunta da un Bene. Un Bene che non viene da noi e che nessuna educazione, nessun ammonimento, nessuna legge potrà mai riprodurre. La nostra esistenza, insomma, ha solo bisogno della Grazia, ha solo bisogno di un dono gratuito e vero, un dono che ci tolga il fiato e che ci faccia ricominciare. Alla grande e davvero. Sapete, quindi, qual è la cosa più triste del mondo? Essere consapevoli di che cosa necessita il nostro cuore e averci già, intimamente e risolutamente, rinunciato. È questo che apre le porte della paura, è questo che apre le porte della morte: credere, in fondo in fondo, che Cristo oggi non passerà di qui, che la mia porta – ormai – sia troppo vecchia per essere riaperta.

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