«Per fare la pace ci vuole coraggio, molto di più che per fare la guerra. Ci vuole coraggio per dire sì all’incontro e no allo scontro; sì al dialogo e no alla violenza; sì al negoziato e no alle ostilità; sì al rispetto dei patti e no alle provocazioni; sì alla sincerità e no alla doppiezza. Per tutto questo ci vuole coraggio, grande forza d’animo».
Queste parole, pronunciate da papa Francesco durante l’incontro di preghiera che ha avuto luogo domenica 8 giugno nei giardini vaticani, hanno una forza realmente profetica nella situazione attuale, quando tutto sembrerebbe indurre a riporre la speranza nella forza, mentre riconoscere il proprio errore e perdonare quello dell’altro sembra un atto fallimentare, un’imperdonabile debolezza.
E non è un caso che a testimoniare questa posizione – che restituisce alla persona il suo primato, nella confusione dei portatori di ideologie che da destra e da sinistra cercano di strappare posizioni di forza, sbandierando diritti tradizionali o nuovi diritti per affermare se stessi – non sia stato un uomo solitario, ma dei fratelli. Perché – ha detto ancora il Papa, siamo «chiamati a spezzare la spirale dell’odio e della violenza, a spezzarla con una sola parola: “fratello”. Ma per dire questa parola dobbiamo alzare tutti lo sguardo al Cielo, e riconoscerci figli di un solo Padre».
Viviamo giorni in cui la guerra sta serrando dappresso l’Europa; in cui tra la gente comune, oltre che tra popoli e società, si scavano fossati di diffidenza e di ipocrisia: l’Occidente si rifiuta di pensare in termini diversi da quelli di calcoli economici o di dietrologie politiche, e la Russia si identifica sempre più spesso come civiltà «eurasiatica», bollando come «Gayropa» l’area occidentale del continente. Ma viviamo anche giorni che passerranno alla storia per la vertiginosa statura umana e spirituale che ci testimoniano, in un’epoca che sembrerebbe così avara di santi e di ideali: l’unità impensabile sorta quest’inverno fra le Chiese sul Maidan – un pugno di uomini inermi, con la croce in mano per fermare la violenza fratricida, nelle settimane scorse ha assunto le dimensioni gigantesche dell’abbraccio fra i due Primati delle Chiese cristiane, che ha inchiodato – pieno di stupore – tutto il mondo davanti ai teleschermi. Questa fraternità ci ha mostrato che si può e si deve vivere in pace, mostra la pace come un’esperienza reale.
Francesco e Bartolomeo hanno tracciato una sorta di programma di cammino comune, che durerà 11 anni. A Gerusalemme «abbiamo concordato di lasciare come eredità a noi stessi e ai nostri successori di ritrovarsi a Nicea nel 2025, per celebrare tutti insieme, dopo 17 secoli, il primo Sinodo davvero ecumenico, dove fu emanato il Credo», ha dichiarato in una recente intervista il Patriarca Bartolomeo. A che cosa, a chi si riferiva con questo «noi» il Patriarca?
Questa la domanda rimbalzata l’indomani sulla stampa russa che ha commentato l’evento. L’abbraccio tra il Papa e il Patriarca ecumenico non può non interrogare milioni di ortodossi anche in Russia: o ci si riduce a leggere questo avvenimento in termini «politici», o si tenta di minimizzare le dichiarazioni che sono emerse come frutto di una «posizione privata, personale», oppure – e non sono pochi a farlo – ci si chiede dove mai stia portando le Chiese, proprio in un contesto tanto drammatico come quello attuale, questo possente vento dello Spirito.
Ma Francesco e Bartolomeo hanno posto anche dei paletti molto concreti su questo cammino: un primo è l’incontro della Commissione mista cattolico-ortodossa, che sarà ospitato a Gerusalemme nel prossimo autunno dal patriarca greco-ortodosso Teofilo III. Un altro obiettivo è quello di lavorare per poter arrivare a celebrare insieme, nello stesso giorno, la Pasqua. Le parole con cui Papa Francesco ha quasi umoristicamente descritto il problema («Dimmi, il tuo Cristo quando resuscita? – La settimana prossima – Il mio è resuscitato la scorsa…»), in realtà mostrano la sua conoscenza di una questione seria nei paesi ortodossi, perché segna una divisione che passa attraverso le famiglie, i rapporti di amicizia, i luoghi in cui si studia e si lavora. Non si tratta di un accordo per facilitarsi la vita, ma della possibilità di riconoscersi insieme, fratelli, davanti alla Resurrezione a cui siamo chiamati ogni giorno. È più importante questo, o contano di più le tradizioni del passato? L’abbraccio a cui abbiamo assistito, l’incontro per la preghiera comune tra leader che sembrava impossibile riunire insieme sono una risposta eloquente.
Ciò che Papa Francesco ci ha testimoniato, in questo triste tempo di scontri e di violenze di ogni genere, è che la fede può «invadere» anche il campo della politica e offrirle delle ragioni più vere ed efficaci di quelle politiche. Sarebbe ben triste che noi cristiani mutuassimo dalla «politica» biecamente intesa le ragioni e i metodi per vivere e costruire la Chiesa.