Al populismo si può rimediare con la crescita economica. Questo assioma è stato esposto alcuni giorni fa da César Alierta, Presidente di Telefonica. Non stiamo parlando di un tizio qualunque, ma di colui che guida la compagnia di telecomunicazioni più importante d’Europa, la quinta al mondo, che fattura circa 60 miliardi di euro e che ha la maggior parte dei suoi affari in America Latina, dove sono esperti di populismo.
La “febbre” mostrata nelle elezioni di settimana scorsa – che secondo il vicepresidente della Commissione europea, il socialista Almunia, “sfida i nostri valori” – si cura solamente con una crescita del Pil? La risposta a questa domanda è fondamentale, perché si riferisce in realtà alla profondità della “anomalia europea”. Nelle scuole e nelle università si è ormai imposta un’interpretazione economicista della nostra storia più recente, che è stata assunta sia dai liberali che dagli statalisti. La base di partenza è l’assolutizzazione della tesi che Keynes ha formulato ne “Le conseguenze economiche della pace”.
Quindi, la Seconda guerra mondiale sarebbe stata causata esclusivamente dai risarcimenti imposti alla Germania con il Trattato di Versailles. E la pace sarebbe tornata in Europa, ponendo fine al ciclo delle guerre napoleoniche e del pericolo del comunismo, grazie al Piano Marshall e all’estensione del welfare che ha reso possibile la nascita di una classe media fino ad allora inesistente. Con sanità, pensioni e ferie pagate sarebbero finiti i problemi e ora la crisi e la globalizzazione sarebbero responsabili della fine del paradiso europeo.
La storia però resiste alle semplificazioni. Noi non ci ricordiamo del Trattato di Versailles, ma del nazionalismo nichilista della Germania. Il caso della Spagna, poi, dove i populismi esplosero violentemente prima che altrove, è emblematico. Negli anni ‘30 il Paese stava attraversando uno dei periodi di maggior stabilità democratica e di ricchezza più importanti degli ultimi due secoli precedenti. Non è stata la povertà e l’assenza di libertà a far nascere il populismo: è stato il radicalismo ideologico a portare mancanza di diritti e fame.
L’economia è importante, sicuramente la prosperità che abbiamo vissuto negli ultimi 50-60 anni in Europa ha contribuito alla stabilità, ma è difficile stabilire una priorità tra la crescita, giustamente redistribuita, e la cultura. Bisognerebbe probabilmente parlare di una circolarità. Se l’Europa è stata diversa è perché una certa concezione della persona, della giustizia, del lavoro in comune ha reso possibile un miracolo mai visto prima. Ora però questa esperienza umana, che si è data per scontata, si sta disfacendo. Il sintomo più evidente è che nei paesi del nord, dove la crisi è stata più blanda, molte persone hanno cominciato a vedere l’altro come un nemico e per questo hanno votato partiti xenofobi.
Cento anni fa, un testimone d’eccezione della Grande guerra aveva percepito lo sgretolamento ora evidente. Agustí Calvet (noto come Gaziel) era una giornalista catalano che seguì i primi mesi del conflitto. Visitò spesso le trincee e raccontò con orrore le conseguenze della “guerra moderna”. Alcune settimane dopo la battaglia della Marna incontrò un contadino a cui era stata distrutta la casa e saccheggiato il granaio. Aveva perso tutti i suoi risparmi e aveva visto uccidere il suo unico figlio. Stava seduto in silenzio, appoggiato a un muro quasi distrutto.
Davanti a tale scena, a Gaziel venne in mente la storia di Giobbe e scrisse: “C’era una grandezza profonda in quell’atteggiamento di dolore infinito. Ma il povero Giobbe incredulo del nostro tempo si rode dentro, arido come un deserto, buio come un abisso, perché non è in grado di pronunciare con fervore e dolcezza le parole del personaggio dell’Antico Testamento: ‘Il Signore ha dato, il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore’”. E il giornalista concluse l’articolo con una frase straordinaria: “La pianura era come un grande deserto paludoso”.
Potremmo parafrasare lo slogan (“È l’economia, stupido!”) usato da Clinton nella sua prima campagna elettorale: “Non è l’economia, stupidi!”. Non è solo l’economia, ma anche la cultura, il significato delle ore che passano. È il vasto deserto che il Giobbe del nostro tempo deve attraversare. Almeno nella palude silenziosa qualsiasi risposta si sente più chiaramente.