I “devoti” pericolosi

PIGI COLOGNESI propone una riflessione, a partire da stralci di Peguy, di cosa voglia dire essere "abituati" alla fede e cosa significa invece viverla con la semplicità di una bambino

In questa penultima puntata della saga su Péguy devo parlare del suo avvincente, imprevedibile, profondissimo cristianesimo. Va da sé che le usuali tremila battute di un editoriale non sono sufficienti neppure per abbozzare il discorso. Preferisco, allora, far spazio al mio autore e citare alcuni folgoranti brani che mettono in evidenza, da un lato, la critica verso un cristianesimo che ha tradito il suo specifico e, d’altro canto, il fascino semplice e commovente del suo volto autentico.

Nella sua ultima opera – Nota congiunta su Cartesio e la filosofia cartesiana; il titolo non inganni, non si tratta di un difficile trattato – Péguy se la prende con le «anime abituate», quelle cioè che non si aspettano più nulla dall’incontro con la realtà perché presumono che le idee bell’e fatte che si sono costruite in testa siano sufficienti a spiegare tutto. In campo cristiano la schiera delle anime abituate va a formare il «partito dei devoti», quelli che non hanno nessuna apertura nella corazza della loro sicumera e, pertanto, non permettono alla Grazia di penetrare nella propria dura scorza. Il loro albero è ormai tutto secco, è solo corteccia e non c’è più nessuna giovinezza di linfa che possa far sbocciare l’inattesa gemma della speranza.

Così ridotti, i devoti non sono più disponibili a nessun cambiamento e – quel che è più grave – non riescono a cogliere niente della continua iniziativa dell’Eterno che vuol coinvolgersi con noi temporali, dell’Infinito che prende iniziativa verso noi limitati. Restano rigidi, ma non vogliono ammettere di essere tali e si vantano della loro devozione che non si sporca mai le mani con la vita concreta. Ed ecco la frase tremenda con cui Péguy bolla l’errore dei devoti: «Poiché essi non hanno la forza e (la grazia) di essere della natura credono di essere della grazia. Poiché non hanno il coraggio temporale credono di essere entrati nella penetrazione dell’eterno. Poiché non hanno il coraggio di essere del mondo credono di essere di Dio. Poiché non hanno il coraggio di essere di uno dei partiti dell’uomo credono di essere del partito di Dio. Poiché non sono dell’uomo credono di essere di Dio. Poiché non amano nessuno, credono di amare Dio».

La bellezza del cristianesimo, per contro, sta tutta nella semplicità bambina con cui l’uomo – senza rinnegare nessuno degli avvenimenti che la realtà gli propone – li affronta nella confidente compagnia dell’Eterno incarnato. È l’atteggiamento infantile di chi non sta lì sempre a preoccuparsi di quello che deve fare o di come comportarsi, perché ha una grande Compagno che gli sta accanto e quindi può sperimentare «quel mettersi nelle mani di un altro, quel lasciamo andare, quel e poi non me ne occupo più che è all’origine delle più alte fortune». 

Dopo il celebre pellegrinaggio a Chartres del 1912 Péguy disse di se stesso: «Non sono un santo. Sono un testimone, un cristiano nella parrocchia, un peccatore, ma un peccatore che ha tesori di grazia e un angelo custode incredibile. Non c’è niente di meno cristiano del moralismo. Seguo il consiglio che Dio dà nei miei “Innocenti”. Mi abbandono».

Ecco come Dio stesso nel Mistero dei santi Innocenti esemplifica tale atteggiamento di abbandono: «Nulla è bello come un bambino che s’addormenti nel dire la preghiera. Sotto l’ala dell’angelo custode e che sorride da solo scivolando nel sonno. E già mescola tutto insieme e non ci capisce più nulla. E arruffa le parole del Padre Nostro e le infila alla rinfusa tra le parole dell’Ave Maria».

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