Il 2 giugno ha dato luogo alla consueta parata militare lungo via dei Fori Imperiali. Si sono riviste sfilare armi e uniformi, piume e ricordi. Ma è veramente semplice routine? Possiamo essere certi che un tale scenario sia veramente scontato e quindi, logicamente prevedibile e ripetibile all’infinito?

In un passato recente l’acido corrosivo della razionalità strumentale ha portato la mia generazione a irridere sarcasticamente di tutto e quindi, in primo luogo, proprio della parata militare del 2 giugno. Ma come non capire che, oggi, il sarcasmo di allora è diventato un veleno che mina ogni progetto, un pessimismo della ragione che impedisce ogni fiducia, ogni condivisione di speranze e progetti, che sbarra il passo ad ogni investimento in prima persona. Come non capire che oggi una tale critica si è sclerotizzata in vuota supponenza, ogni rifiuto di fiducia si è tramutato in pericolosa indifferenza? 

Le ricorrenze non sono mai consuete quando dietro gli applausi, le bandiere e qualche istante di commozione, c’è un Paese in profondo mutamento dove, dietro le apparenze, nulla in realtà è più come prima. Non lo è il contesto mondiale dove nuovi paesi emergenti come l’India tengono in scacco la diplomazia italiana da tre anni, trattenendo due nostri militari senza avere ancora precisato il capo di imputazione. Non lo è il contesto europeo, dove l’Ue tiene da tempo i nostri conti sotto osservazione e non manca di ricalcolarli: ci spiega infatti che i miliardi che mancano all’appello dei parametri per la riduzione del debito non sono quattro ma nove. Infine non è più come prima lo stesso contesto nazionale, dove l’Istat ci avverte che negli ultimi cinque anni quasi 100mila giovani hanno lasciato l’Italia e non sempre per raggiungere l’Mit di Boston o l’Ehess di Parigi, ma spesso anche per andare a fare i camerieri nel Kent o le donne delle pulizie a Stoccarda, visto che la disoccupazione giovanile è arrivata alla cifra record del 46%.

Proprio per questi motivi le istituzioni presenti alla parata non sono nemmeno loro le stesse. Mai una classe di governo degli ultimi quarant’anni ha visto coincidere un così alto credito di consenso nei suoi confronti con un periodo altrettanto profondo di crisi economica e di declino della credibilità politica: è una sfida terribile, perché fa inevitabilmente risuonare il campanello dell’ultimo giro. 

In questo senso la tenacia del presidente Napolitano, che ha difeso le istituzioni impedendo le ennesime elezioni anticipate che improvvisamente non chiede più nessuno, le forze moderate che si sono raccolte accanto alle ultime due coalizioni parlamentari, l’impegno di un Paese che ha accettato sacrifici mai visti nei decenni precedenti, costituiscono dei fattori di fiducia che, verosimilmente, non possono riprodursi all’infinito. 

È necessario allora non minimizzare questo capitale di disponibilità che per l’ennesima volta si riunisce intorno al nostro presidente; questo minimo condiviso nel quale la cultura laica si intreccia con la tradizione cattolica e trova nell’occasione del 2 giugno un ulteriore momento di condivisione. 

Occorre non deludere una tale fiducia. Non basta infatti sostituire ad una cultura della distanza critica, degenerata in supponenza permanente, la cultura della fiducia che si è apertamente espressa il 25 maggio. Occorre anche che si moltiplichino le opportunità affinché una tale disponibilità possa manifestarsi ed operare. Si tratta allora di produrre un mutamento profondo dei canali di comunicazione con le istituzioni ad ogni livello ed in ogni settore. Occorre trovare linee efficienti di comunicazione dove la relazione con le istituzioni funzioni e quindi i centralini siano liberi, gli operatori siano disponibili ed i funzionari si rivelino preparati. 

Tra pochi mesi si potrà sapere se i volti del 2 giugno sono l’icona di una svolta decisiva e del ritorno ad una società in crescita, oppure l’ultimo tentativo di salvare un Paese perso nelle proprie contraddizioni e smarrito nelle infinite caste che lo assediano, fino a bloccarlo.