Nella zona di Gaza, all’inizio del VI secolo dopo Cristo, c’era un grande monastero. La maggior parte dei suoi membri conduceva vita comune; alcuni però si ritiravano in celle poco lontane e trascorrevano tutta la vita in solitaria reclusione – il termine è preciso: non uscivano mai –, dedicandosi alla preghiera, a lavori manuali, alla penitenza e alla meditazione. Uno di loro si chiamava Barsanufio; talmente profonda era la sua esperienza spirituale – e infatti la Chiesa lo proclamerà santo – che molto spesso gli altri monaci si rivolgevano a lui per chiedere consiglio, confidare qualche dubbio o dolore, mettere in comune il proprio cammino ascetico.
Barsanufio però non riceveva direttamente le persone: era l’abate del monastero che gli portava dei biglietti con le domande dei monaci e poi scriveva le risposte dell’eremita. Questo straordinario epistolario è giunto fino a noi.
Un monaco di nome Andrea interloquì parecchie volte con l’anziano Barsanufio, il quale a più riprese gli diede un consiglio che suona così: «Trascorri i tuoi pochi giorni esaminando i tuoi pensieri e contraddicendo a quelli che ti portano turbamento».
Scavalcando mille e cinquecento anni, mi sembra che questo suggerimento tocchi un nervo essenziale del nostro odierno comportamento. L’indicazione di «esaminare» i propri pensieri – dato il fatto che i nostri giorni sono decisamente «pochi» – non mi stupisce: si comprende facilmente la necessità, per una vita equilibrata, di osservare attentamente ciò che si pensa, da cui poi derivano i comportamenti. Ché, se uno non esamina mai quello che pensa, non impara mai nulla da quello che fa.
Ma è la seconda parte dell’invito di san Barsanufio che è sorprendente. Uno direbbe che i pensieri che gli vengono, tutti i pensieri che gli vengono, hanno diritto di essere accolti, rispettati e, quando possibile, anche comunicati. Ci sembra innaturale che un pensiero vada «contraddetto». Confondiamo la spontaneità col fatto che tutto quello che ci passa per la testa deve essere legittimamente accettato e possibilmente ributtato sugli altri. Le possibili esemplificazioni di questa logica sono infinite: la bulimia della messaggistica via sms in cui si comunica poco o niente, i talk show televisivi o radiofonici dove viene persino il dubbio che dietro le parole dette ci sia davvero un pensiero, quelli che mettono in rete video in cui si sfogano scompostamente per qualsiasi inezia, le assemblee dove senza essersi preparati e senza tenere in minima considerazione l’interlocutore si parla solo perché, appunto, si ha un pensiero in testa.
La cosa però è ancora più profonda e riguarda i pensieri che uno neanche dice, ma che ammette nel proprio orizzonte, non contesta mai. Sono quelli che un tempo venivano bollati come «cattivi pensieri». Essi non sono affatto principalmente, né tantomeno esclusivamente, quelli che riguardano il sesto comandamento; cattivi pensieri, dice Barsanufio, sono quelli che «portano turbamento», cioè distolgono da un percorso di crescita, deviano dal cammino. Li conosciamo bene: la continua recriminazione per un torto subito, l’insistenza sulla propria incapacità, l’inseguimento di una ipotesi che si sa impossibile, crogiolarsi in una fatica, alimentare la tristezza, abbandonarsi allo sconforto, sognare una cosa sbagliata. Dire che tutto ciò può essere «contraddetto» affinché il cammino non ne sia «turbato» è un meraviglioso inno alla libertà dell’uomo.