Cento anni fa, a Sarajevo, una serie di eventi portò alla morte dell’Arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono dell’Impero austro-ungarico. Quell’omicidio, si è sempre detto, fu all’origine della Prima guerra mondiale. Francesco Ferdinando stava percorrendo le strade della capitale bosniaca, quando un anarchico fece esplodere una bomba che il principe riuscì a evitare, ma che ferì un gruppo di persone che erano con lui. Se egli fosse rimasto nel municipio dove gli era stato dato rifugio dopo l’attentato dinamitardo, se non avesse insistito nell’andare a visitare i feriti, se l’autista non si fosse perso, se non fosse passato per la via dove si trovava l’anarchico Gavrilo Princip, se quest’ultimo avesse mirato da un’altra parte, se non avesse avuto il tempo di sparare con la sua pistola, se il principe non avesse avuto la mania di farsi cucire la camicia antiproiettile perché il suo aspetto fosse il più elegante possibile, se tutte queste cose non fossero successe, l’attentato non si sarebbe potuto ripetere o si sarebbe potuta evitare la morte dell’Arciduca tamponando rapidamente la ferita. E non ci sarebbero stati i circa 30 milioni di morti provocati dalla Grande guerra.
Viene quasi da sorridere nel leggere un paragrafo come quello sopra. Siamo convinti, come Edward Grey, ministro degli Esteri della Gran Bretagna, che la guerra era un fatto inevitabile, un prodotto necessario della natura. Siamo gente sistematica e sappiamo che tutto avviene per una serie di cause che costituiscono ragioni sufficienti a spiegare la realtà. La Grande guerra era inevitabile perché era stata preceduta dai conflitti balcanici, perché lo scontro tra Francia e Germania del 1870 non si era chiuso, perché l’imperialismo nazionalista delle potenze era irrefrenabile, perché i prussiani erano ebbri di letture nicciane…La lista è lunga, ma ben nota.
Contro il pensiero sistematico, dobbiamo anche ricordare che se l’Inghilterra fosse stata un po’ più decisa nell’esercitare il suo ruolo di mediatore sicuramente le ostilità non sarebbero iniziate, che se i soldati tedeschi avessero avuto informazioni migliori non avrebbero scatenato un’offensiva che ritenevano sarebbe durata poco. Bisogna ricordare quel che diceva Hannah Arendt: “A differenza della natura, la storia è piena di eventi”.
Non si tratta di giocare a elencare fatti e controfatti per il gusto di speculare. È inutile chiedersi cosa sarebbe successo se la camicia di Francesco Ferdinando si fossa aperta in tempo. Ma conviene, per un po’ di salute esistenziale, uscire dall’ideologia che prima spiega la vita come una conseguenza di leggi necessarie e poi nega il male o lo considera un principio autonomo che non ha niente a che vedere con la libertà personale. Bisogna riconoscere che molti, troppi volevano la guerra. Non solo i leader politici.
I giovani si arruolarono come se stessero andando a una festa. Uno di loro, Ernest Jünger, in quegli attimi scrisse che non capiremo mai perché nasciamo e stiamo al mondo: l’unica cosa importante è che esistiamo. L’unica cosa importante è che siamo capaci di fare cose, di combattere. Quale azione può essere più intensa del fragore della battaglia per dimenticare l’inquietudine di non sapere chi si è?
Quei giovani, molti dei quali neppure ventenni, che corsero ad arruolarsi per avere, finalmente, una vita interessante, si trovarono presto sepolti in trincee, dove la morte arrivava con il suono di un sibilo. E capirono in fretta che la sola azione non è in grado di dare risposte. Perché, come diceva ancora la Arendt, “l’azione senza un nome, un ‘chi’ che le sia annesso, è priva di significato”. Dopo si provò a rimediare – aggiunse la filosofa tedesca – con “i monumenti al ‘Milite Ignoto’”, che “testimoniano ancora il bisogno di glorificazione, di trovare un ‘chi’”. “Il desiderio e il rifiuto di rassegnarsi al fatto brutale che la guerra non era stata azione di nessuno ispirò l’erezione dei monumenti agli ‘ignoti’, a tutti coloro che la guerra non era riuscita a render noti e aveva quindi derubati, non della vittoria, ma della loro dignità umana”. La dignità non si perde mai, ma l’azione senza un chi (Chi) ci lascia certamente senza nome.