Sarebbe cosa saggia tener conto che – tanto più nei conflitti di lungo periodo – ad ogni passo avanti verso la pace il “partito della guerra”, trasversale per natura sua, reagisce stimolando l’intensificazione del conflitto. Perciò ci si deve addolorare ma non sorprendere che al recente incontro avvenuto a Roma fra i presidenti palestinese e israeliano, su invito e alla presenza di papa Francesco, abbia fatto seguito l’assassinio dei tre giovani israeliani studenti della scuola rabbinica di Hebron e tutto quello che ne sta seguendo. Le ragioni immediate dei drammatici eventi di questi giorni non mancano, ma la causa profonda è quella che dicevamo. Ancor più dei conflitti ad alta intensità, inevitabilmente di non lunga durata, quelli a bassa intensità e lunga durata, come appunto è il caso del conflitto israelo-palestinese, rimodellano stabilmente in funzione della guerra  l’economia e la società dei paesi coinvolti.
Da entrambe le parti della barricata una parte molto consistente dell’economia e della società vive della guerra; e in caso di pace andrebbe incontro a un processo di riorganizzazione né facile né indolore. Inoltre la scia di lutti e di rancori da ambo le parti, che un conflitto di lungo periodo lascia nella storia delle persone e delle famiglie, finisce per essere proporzionalmente assai più diffusa e tenace di quella di un conflitto di breve periodo per cruento che sia. Si aggiunga infine che, in un’economia ormai globalizzata, il “partito della guerra” ha importanti ramificazioni pure in sede internazionale. Perciò, tanto più in situazioni del genere, proprio chi pur da una posizione di forza vuole la pace, chi ha bisogno della pace dovrebbe avere il coraggio di non farsi dettare l’agenda da chi vuole la guerra. Invece è proprio questa la trappola in cui con Benyamin Netanyahu sta cadendo l’Israele. La tremenda sequenza del feroce assassinio dei tre studenti israeliani di Hebron, seguito dall’altrettanto feroce assassinio di un giovane palestinese a Gerusalemme e quindi dal lancio indiscriminato di rudimentali missili da Gaza in direzione di obiettivi civili israeliani, non ha altro obiettivo se non quello di provocare lo scatenamento della potente macchina militare israeliana con inevitabili distruzioni e uccisioni di civili inermi. Distruzioni e stragi comunque inevitabili sia perché Gaza è una grande conurbazione fittamente abitata e sia perché da sempre le forze militari palestinesi di qualsiasi sigla e appartenenza non favoriscono e non organizzano, anzi non di rado impediscono  l’esodo dalle zone di guerra di anziani, donne e bambini, che non esitano ad usare come “scudi umani” (e lo stesso accade di solito in casi analoghi anche nel resto del mondo arabo). La sistemazione di batterie di artiglieria, di rampe lancia-missili e di depositi di munizioni e carburante in mezzo a case abitate non è l’eccezione ma la regola.

Stando così le cose, vale la pena che Israele si lasci trascinare in un attacco su vasta scala a Gaza? Gli conviene davvero far svanire il recente accordo tra Hamas e Al Fatah allontanando di nuovo le prospettive di una pace che in fin dei conti ogni giorno che passa diventa sempre meno rinviabile? Gli conviene ignorare che il suo storico “Grande Fratello”, gli Stati Uniti, si stanno ormai ritirando dal Mediterraneo? Non si tratta di prescindere dalla soluzione di problemi che sono reali; e tra questi in primo luogo l’arsenale dei rudimentali missili accumulati a Gaza (che pare ammontino a circa 10 mila), non guidati e quindi militarmente inutili ma purtroppo in grado di provocare distruzioni e morte nelle case su cui dovessero andare a cadere. Si tratta però di affrontarli avendo come obiettivo la pace e non l’eliminazione del nemico.