Cosa posso, cosa possiamo dire alla madre del ragazzo morto a Napoli per la caduta di calcinacci mentre attraversava la Galleria Umberto I, nel centro della città? Non c’è parola sensata che non debba partire per forza da questa domanda. 

Il primo pensiero che nasce, a questo riguardo, è che bisogna fare compagnia a quella madre, aiutarla se possibile a star di fronte a quel fatto, a non fuggire via, perché fuggire è sempre possibile. 

I mezzi di informazione, e specialmente la tv, sembrano fatti apposta per favorire la fuga verso questioni-altre. 

Così, capita di sentire persone straziate dal più terribile dei dolori chiedere a gran voce che vengano stabilite le responsabilità pubbliche, che vengano trovati i colpevoli.

Capita di sentire persone straziate dal dolore indignarsi perché la pena comminata ai colpevoli è troppo leggera. E dirsi soddisfatti quando le aspettative si sono realizzate.

Ma quale soddisfazione? Quale indignazione? Una volta che hai perso un figlio, non c’è più niente di giusto a questo mondo. 

I mezzi d’informazione soffiano sul fuoco di questo disorientamento della persona, di questa incapacità di affrontare il dramma. Tanto che, alla fine, noi poveracci qualunque cominciamo a parlare e pensare a nostra volta esattamente come la tv. 

Io credo che desiderare la vendetta (e una condanna giudiziaria fa parte delle vendette) sia naturale in noi tutti. Il problema è: di che cosa cerchiamo vendetta?, e anche: qual è la giusta vendetta? 

Non fuggire significa proprio questo. Significa chiedersi, per esempio: mi è stata tolto qualcosa che apparteneva a me? Cosa apparteneva a me? Forse i miei sentimenti, quelli sì, non certo quel ragazzo, quel corpo, i pensieri nella sua testa, i desideri del suo cuore. Tutto questo non apparteneva né alla madre né a nessun altro, se non a Dio. 

Dio! Questa parola che sembra fatta d’aria, ecco che d’un tratto diventa dura come la pietra. E fa imbestialire: come osi parlarmi di Dio? Nessuna parola sembra più inopportuna, la rabbia ci fa smaniare. Nel dolore ci scopriamo piccoli e meschini, e questo ci riempie di dispetto. Non si può stare da soli davanti alla verità.

Cosa dire allora alla povera mamma di quel ragazzo morto in quel modo ingiusto e inaccettabile (la morte è sempre ingiusta e inaccettabile)? 

Stiamo insieme, ecco cosa dire – e fare. Nessuno può sapere la ragione di questo dolore, nessuno può avere la pretesa di svelarne il mistero. Tuttavia si può perlomeno cercare di non parlare d’altro, di non ubriacarci di indignazione, di “precise responsabilità” e così via.

Non perché non ci siano anche quelle, ma perché la prima cosa da fare è offrire sé stessi, qualche ora del proprio tempo, qualche commissione sbrigata, cose come queste.

Non dite che sono semplicista. Nel dolore noi dobbiamo fare esperienza di qualcosa che ci viene donato, di una gratuità. Che possono essere le parole di un prete o di una persona saggia, ma anche le uova e la verdura e il latte e il pane acquistati da un vicino.

Perché dal dono non si torna indietro. Chi riceve un dono non può dire “che importa?, tanto nessuno mi restituirà quello che ho perso”. Anche un piccolo dono è qualcosa, un seme minuscolo capace di entrare nel cuore impietrito dallo strazio fino a spaccare quella pietra e generare la cosa più impossibile, il perdono – che non a caso significa “dono pieno, totale”.

Occorre compagnia, tempo speso amorevolmente. Nulla – lo dice anche la Bibbia – è peggio della solitudine del cuore.