Nelle scorse settimane i giornali ci hanno ricordato, con dovizia di articoli e più o meno dotte considerazioni, un bel po’ di anniversari. Anche – per non dire soprattutto – quelli più sfiziosi e leggeri; ad esempio gli ottant’anni di Paperino e i cinquanta della Nutella. Tra una cucchiaiata della dolce crema a base di nocciola (magari solo immaginata per problemi di colesterolo) e il malinconico ricordo della nostra infantile simpatia per lo sfortunato papero (parallela all’antipatia verso i saccenti nipotini) non c’è stato dato molto spazio per pensare a un altro anniversario. Il 18 giugno del 1964, cinquant’anni, fa moriva nella sua Bologna quello che il critico Giulio Carlo Argan riteneva essere stato “indubbiamente il maggior pittore italiano del secolo”. Sto parlando di Giorgio Morandi, che a Bologna era nato nel 1890 e vi aveva sempre vissuto – da celibe con le tre sorelle nubili – nella casa di via Fondazza 38, lasciata solo per ritirarsi nella vicina Grizzana a causa della guerra oppure per le vacanze estive.La vita di Morandi è stata totalmente dedicata alla pittura e all’incisione (ebbe la cattedra in questa materia all’Accademia), alle quali ha dedicato una strabiliante concentrazione. E credo che sia proprio questa tenacia concentrata che lo rende così poco digeribile ai nostri sguardi odierni e anche al bel mondo che scrive sulle pagine culturali dei giornali.
Non c’è bisogno di essere esperti d’arte per capire la potenza provocatoria che la pittura di Morandi produce ancora oggi. Proviamo a immaginare il pittore che si mette al lavoro al mattino nella sua stanza trasformata in studio e si accinge per l’ennesima volta a dipingere una “Natura morta” (Morandi si è occupato quasi solo di questo). Gli oggetti sono lì, sono i soliti o magari uno nuovo che è venuto in mente il giorno prima, sono tazze e bottiglie, portafiori e ciotole, scatole e brocche. Si tratta, prima di tutto, di disporli in un certo modo piuttosto che in un altro, raggrupparli o separarli come in un’architettura. Bisogna ora – e qui viene il difficile – guardarli attentamente, scoprire le reciproche connessioni e il comune rapporto con la luce che in qualche modo li fa essere. Poi Morandi comincia a dipingere, cercando di esplicitare qualcosa del misterioso rapporto che intercorre tra la coscienza personale, che si avvede degli oggetti, e la loro realtà lì davanti. È un muto dialogo dove deve prevalere il reciproco rispetto: il pittore non piò impunemente rovesciare sugli oggetti i propri pensieri o stati d’animo; né, d’altra parte, l’oggetto può imporglisi impressionandolo come se fosse un puro meccanismo recettore. La pazienza di tale dialogo può arrivare al culmine: quando l’oggetto produce lo stupore dovuto al suo puro esistere e tale stupore riverberarsi nella coscienza che il soggetto ha di se stesso.
Ho usato i termini silenzio, rispetto, pazienza, stupore. Se ora pensiamo al nostro modo comune di guardare, non dico gli oggetti comuni immortalati da Morandi, ma persino quelli che ci si propongono con una pretesa di bellezza: un film, un video in rete, un paesaggio, un monumento, ci accorgiamo della distanza. Prevalgono la fretta compulsiva, l’appropriazione tanto superficiale quanto vorace, il rumore del disinteresse. E tutto ciò, evidentemente, impedisce ogni stupore. È uno sguardo buttato via. Si capisce, ora, perché l’anniversario di Giorgio Morandi – “maggior pittore italiano del secolo” – non l’ha celebrato quasi nessuno?