In un recente articolo di Stefano Filippi sul Giornale si dice di un’albergatrice di Lignano Sabbiadoro che si è lamentata della scarsa volontà dei ragazzi italiani di lavorare nella sua struttura alberghiera, pur applicando i contratti in vigore. La donna si è vista costretta, proprio per questo e a malincuore, ad ingaggiare ragazzi albanesi, più disponibili e motivati. I nostri connazionali, ha dichiarato, “si credono tutti Masterchef e per meno di 3000 euro non si muovono”. 

Il giornalista apre il dibattito: “Meglio un lavoro qualsiasi per guadagnarsi il pane finché arriva il lavoro giusto, oppure meglio aspettare (e farsi mantenere) l’impiego adatto alla propria professionalità?” e, collegandolo al dato sugli oltre due milioni di giovani tra i 15 e i 29 anni che non studiano né lavorano, ripropone l’accusa a un’intera generazione che non vuole impegnarsi, né fare sacrifici, ma resta comodamente in casa dei genitori. 

Probabilmente tutto questo è abbastanza vicino alla verità, ma proprio questo ci spinge a chiederci “perché?”. Perché i figli rifiutano il lavoro stagionale, duro e non eccezionalmente pagato (anche se decorosamente retribuito) quando tra i loro padri, trenta o quarant’anni prima, molti non hanno esitato a raccogliere mele in Trentino, vendemmiare in Toscana, lavorare negli alberghi svizzeri e tedeschi, pur di avere quei pochi danari che consentivano di stare a casa con onore, senza pesare sulle spalle dei genitori e senza chiedere danari, acquisendo immediatamente quel “proletario rispetto” per chi lavora? Cos’è cambiato in questi trent’anni da porre in ombra i volti dei camerieri di Lecce a Brema per cedere il passo a quelli di Scutari e Valona a Lignano? 

La risposta è semplice e drammatica: i padri avevano un progetto di vita, i figli no. Quei padri e quelle madri che partivano per i lavori estivi, avevano sogni, fantasie, desideri e speranze. Pensavano ad una vita densa di estate e di sole, gioiosa e colorata, con un mestiere cercato, trovato e amato. Avevano un’idea di casa, di tavola e di cena. Un “desiderio di città” avrebbe detto Péguy.

La domanda da porsi è allora molto più semplice e drammatica: perché questi ragazzi non hanno un simile desiderio? Chi ha fatto sì che lo perdessero per strada e facessero sempre più fatica a riconoscerlo, tanto da averne perso le tracce? Chi sono stati i “maestri del realismo” che hanno spiegato loro che l’amore eterno non esiste, il mestiere che ti dà soddisfazione nemmeno e la vita bella non si riduce che ai pochi attimi che bisogna saper cogliere? Chi ha spento in questi ragazzi il desiderio di fondare e di costruire?

Non lo sanno forse la nostra amica albergatrice ed il nostro amico giornalista che la stessa vita dura che loro, negli anni della giovinezza, hanno certamente fatto (e che a tutt’oggi fa loro onore) si nutriva della promessa di una “vita buona” come dicono i filosofi, di un desiderio di “vita in abbondanza” come dicono le scritture?

Non lo sanno forse i miei coetanei, quelli svezzati come me dal ’68 e dintorni, che tutta la nostra forza di allora era pari al nostro desiderio di infinito? Ed era proprio questo che ci mandava a lavorare tra vigne e pompe di benzina, certi di un futuro migliore? Chi erano i nostri amici di allora? Chi erano i compagni e i maestri che ci sostenevano nel nostro desiderio? Dove si alimentava il nostro sogno di “vita in abbondanza”? Chi ci aiutava a prenderci sul serio? Personalmente ricordo un padre cappuccino e un martellante richiamo dei vangeli della domenica: parlavano sempre di Resurrezione.

Chi invece ha remato contro, seminando disillusione, elogiando “l’attimo fuggente”? Chi, dentro le nostre stesse famiglie, ha seminato tra i propri figli il cinismo, il “tanto è tutto uguale”? Dov’erano i cattivi maestri tra le nostre fila? Non abbiamo forse troppo accarezzato la bestia del disincanto? Non abbiamo forse troppo brigato in favore di un relativismo liquidatorio e semplificante?

I ragazzi dovrebbero certamente andare a lavorare come camerieri per 1500 euro al mese nell’albergo di Ligano e altrove. Ma per farlo, dovrebbero avere un progetto di vita. Occorre che ci impegniamo a restituirglielo: è questo e non altro il nostro dovere di adulti. Occorre che ci impegniamo a ridare loro fiducia nella vita, spiegando loro che la vita in abbondanza esiste, è ad un metro da loro, basta riconoscerla.