Dopo una lunga discussione in Commissione Affari costituzionali del Senato, il disegno di legge costituzionale di riforma del Senato e delle autonomie regionali e locali è approdato in aula dove verrà discusso e approvato in prima lettura per poi passare alla Camera; tra qualche mese il procedimento sarà ripetuto in seconda lettura, e se il ddl non verrà approvato con i 2/3 dei voti, si potrà aprire la fase referendaria, a richiesta di un quinto dei membri del Parlamento, 500 mila elettori o 5 consigli regionali.

La strada, pertanto, è lunga e non giustifica le notizie che vengono spesso diffuse circa l’imminenza del risultato. Eppure, vi è già chi pensa alla seconda fase delle riforme, quella in cui si toccherà la forma di governo, con l’intento dichiarato di trasformare l’odierna forma parlamentare, dove Parlamento e Governo sono legati dal rapporto di fiducia volto a dare legittimazione democratica all’azione politica, in una presidenziale (o sempresidenziale) in cui rispettivamente il presidente del Consiglio o il presidente della Repubblica siano eletti direttamente dal popolo e siano quindi molto meno dipendenti dagli umori del Parlamento. In tal senso si comprende come mai chi avanza questa ipotesi ragioni sul presupposto di una legislatura di durata medio-lunga, visto che i processi di riforma necessitano di lungo tempo. 

Quanto al ddl in discussione, esso presenta – a parere di chi scrive – aspetti problematici ma anche qualche elemento positivo. Da valorizzare è l’impianto globale del testo normativo, che recepisce nella prima parte molti elementi condivisi quali la nuova disciplina del decreto legge, la corsia preferenziale per i disegni di legge qualificanti l’attività di governo, il controllo preventivo della Corte costituzionale sulle legge elettorali, un Senato ridimensionato nei numeri e nella composizione nella speranza che esso diventi capace di offrire qualche elemento tecnico/qualitativo alla legislazione soprattutto tramite il potere di presentare disegni di legge in cui è auspicabile che confluiscano le esperienze desunte dai legami dei nuovi senatori con le autonomie locali e l’attività di valutazione delle politiche. 

Nella parte relativa alle Regioni, il nuovo art. 117 ha riscosso (e a ragione) molte critiche visto che, in buona sostanza, esso riporta al centro l’attività legislativa – salvo pochi casi in cui le Regioni potranno legiferare pur sotto la spada di Damocle del potere di intervento dello Stato in caso di interesse nazionale o di riforme di sistema da realizzare in modo uniforme sul territorio nazionale. Per quanto criticabile sul piano tecnico, questa previsione ha sullo sfondo il fallimento della riforma del Titolo V realizzata nel 1999/2001 e viene giustificata come tentativo di rendere un po’ meno farraginoso il nostro sistema di produzione normativa, ormai interamente determinato dagli interventi della Corte costituzionale; se le nuove norme realizzeranno un abbattimento del contenzioso, una parte importante di tale razionalizzazione avrà avuto successo. Ma su questo sarà il tempo e l’esperienza a dare certezze; per ora tutto è di natura ipotetica.

Affianca e nello stesso tempo corrobora il progetto di riforma costituzionale lo sforzo, per ora più promesso che realizzato, di ristrutturare le colonne portanti della nazione: la riforma della pubblica amministrazione, quella del lavoro, quella dell’impresa sociale e molte altre ancora, al fine di ridare fiato, forma e capacità operative al sistema nel suo insieme. La riforma costituzionale, insomma, procede in parallelo con tutto il resto del programma di governo e ha senso se letta in relazione a quello. Il che si comprende, visto che essa mira apertamente a dare forza all’esecutivo fino a far pensare ai suoi critici di essere una sorta di anticamera per le spinte di taglio autoritario presenti nell’attuale classe politica.

Sarò ancora una volta il tempo a venire che darà ragione o torto a questi timori. Sta di fatto che chi sta riflettendo sul destino degli stati nazionali europei e descrive questo momento storico in termine di quarta rivoluzione (dopo quella liberale, quella sociale e quella thatcheriana) mette in conto che, per rendere di nuovo efficienti ed efficaci le strutture statali attuali, frutto dell’esasperazione del welfare state, del debito e dell’universalismo dei diritti, occorrerà che i governi si dotino di poteri forti e, quindi, di un tasso di decisionismo più alto di quanto sia stato in passato a scapito del consociativismo fin qui dilagante (si pensi, ad esempio, al potere dei sindacati di frenare molte delle riforme in cantiere).

Sapranno le moderne democrazie (e la nostra in particolare) riequilibrare queste tensioni e riprendere possesso dei processi decisionali, innestando su di essi rinnovati elementi di partecipazione, di valorizzazione delle autonomie territoriali e sociali, di equilibri nella rappresentanza dei interessi, insomma di autentico pluralismo? 

La risposta ha a che fare con due elementi: da un lato la possibilità che il progetto riformatore di Renzi si possa realizzare senza troppi ostacoli ma dando ascolto al Paese, visto che esso pare essere la nostra ultima chance di sopravvivenza; dall’altro, la capacità delle autonomie territoriali e sociali di ripensare al loro ruolo, superando i particolarismi e gli interessi di parte. Al presente, dunque, tutto è criticabile, e con mille ragioni particolari (compreso il progetto di riforma costituzionale) purché le critiche non ingenerino ulteriori disfattismi bloccando un percorso che, per quanto lungo, deve attivarsi per giungere – nel tempo – a qualche risultato.