Mi sforzo con fatica di seguire le notizie che vengono dalla Terra Santa in questi giorni. Quando le leggo provo innanzitutto tre stati d’animo: dolore, vergogna, e rabbia. Il dolore è provocato dallo spargimento di sangue, innocente e no, dal bagno di terrore e violenza cui deve sottostare la gente di laggiù. Mi immedesimo con la loro angoscia, il loro sgomento, la loro disperazione e umiliazione.  

Mi viene in mente la dodicenne Cristine, l’unica cristiana che è morta nel bombardamento di Gaza ad opera di Israele tra il 2008 e il 2009; la ragazza era uscita da casa per cercare viveri quando una bomba cadde non troppo lontano da lei. Non fu colpita da alcuna scheggia, era illesa, eppure morì sul colpo, per il terrore. Che segni rimangono in coloro che non sono uccisi, né feriti nel corpo?

Vedo davanti a me i volti smarriti dei tanti palestinesi che conosco e amo, oltre a quelli non noti che appaiono nella stampa. Tutti mi accusano. Eccola, la sorgente della mia vergogna. Di che cosa mi accusano questi volti? Mi accusano di come per tanti anni, a causa della mia paura, non mi sono permesso di considerare l’umanità, la storia, il dramma e la tragedia di questi arabi, di questi “terroristi” o “simpatizzanti terroristi”, di queste persone nelle quali vedevo unicamente una minaccia alla mia sicurezza. Per la mia storia, per esperienza e studio, ho potuto conoscere bene non solo diverse comunità del Medio oriente ma anche l’islam in quanto tale, i suoi princìpi, la sua storia recente. Nonostante l’affetto che provavo per tante persone incontrate in quelle terre, nutrivo in me un forte apprezzamento per la forza ideologica e politica di questo fenomeno, per il suo potere di muovere masse di persone per rabbia e ambizioni di supremazia. 

Così, quando caddero le Torri gemelle a New York nel 2001, ebbi, come tanti, paura. In seguito, con lo sviluppo della cosiddetta “guerra al terrore”, non presi più in considerazione la storia delle persone che cadevano sotto le mani di chi agiva nel nome della mia sicurezza. Non volevo guardare dietro le quinte di tutto quello che portava il nome sacro di “misure di sicurezza”.

Ma il buon Dio è fantasioso, e ha voluto mandare me, nato ebreo, cresciuto sionista, studioso della storia dell’islam, in Palestina per lavorare come prete di una parrocchia palestinese, oltre a lavorare nell’ufficio del Patriarca latino di Gerusalemme. Stando ormai dall’altra parte, ebbi modo di vedere e toccare in prima persona come agiscono le forze di sicurezza quando prendono di mira popolazioni intere, l’arbitrarietà a volte con cui si muovono, la leggerezza con cui una forza militare nettamente superiore tende a trattare chi, per quanto inerme, è associato a una minaccia. 

Forse chi non ha mai vissuto sotto un’occupazione militare avrà difficoltà immaginare l’umiliazione quotidiana che spesso sperimentano le popolazioni che stanno sotto. E allora, in quella posizione, mi chiedevo come chi mandava quelle forze di sicurezza poteva giustificare tutto ciò. Poi capii: come me, non ne volevano sapere niente. Tutto quello su cui viene messa l’etichetta “sicurezza” deve stare fuori del campo del giudizio morale. Come me, rinunciavano al dovere di giudicare. Avevano e hanno paura, e se qualcuno ci sta a promettere che quel che si fa è per la sicurezza, non è più necessario sapere oltre. Faccio molta penitenza per essermi consegnato a questa mentalità immorale.

Questa, mi sembra, è la mentalità di chi ora manda la forze militari a Gaza, e in modo diverso, di chi lancia quei razzi verso Israele. Ma è anche la mentalità che avverto in chi ci dà le notizie su giornali e tv a proposito di questo conflitto. “Israele reagisce alla provocazione di Hamas”. È davvero così? Senza motivo, senza ragioni, Hamas manda razzi su Israele solo perché fatta di persone bestiali dominate da un odio incontrollabile? Non stanno forse, anche loro, reagendo a provocazioni insopportabili? 

E allora mi sembra che chi scrive queste cose le veda nel modo che una volta le vedevo io, senza un interesse vero a conoscere, a capire le ragioni umane di popolazioni intere, etichettate, ormai, come “minaccia alla sicurezza”.