È probabile che a fine anno gli immigrati sbarcati sulle coste italiane superaranno la quota record di 100mila. Con gli arrivi degli ultimi giorni siamo già oltre 60mila e le segnalazioni intercettate sull’altra sponda del Mediterraneo fanno intuire che l’estate sarà un’estate molto trafficata nel Canale di Sicilia. Siamo quindi di fronte a un fenomeno umano di dimensioni veramente impressionanti, che non accenna ad esaurirsi, ma che in Europa viene percepito solo come problema organizzativo o amministrativo. Non ci si rende conto che pur nella dimensione quasi biblica di questi flussi, quelli che si muovono sono solo piccole porzioni di popoli sconvolti da guerre, dittature o povertà. Per dare un numero, i profughi siriani accolti nel vecchio continente sarebbero solo lo 0,7 per cento di tutti i profughi causati dal conflitto che sta distruggendo il Paese. E i quasi 20mila eritrei sbarcati nei primi sei mesi sulle coste italiane sono una minima avanguardia di un popolo di 5 milioni di persone schiacciate dalla dittatura di Iasias Afwerki.
Si scappa perché la situazione è insostenibile, al punto che anche i rischi di un viaggio in balia dei trafficanti viene considerato comunque un destino migliore. Intervistato dal mensile Vita, che dedicherà a questo tema la prossima copertina, Giovanni Martinelli, vescovo di Tripoli, in Libia, quasi con le lacrime agli occhi, ha raccontato: «A furia di sentirmi dire “ovunque la vita è migliore rispetto a quella dei nostri Paesi”, l’unica cosa che posso augurare loro è che trovino una barca per attraversare il Mediterraneo, anche a rischio della vita».
Martinelli poi ha voluto dire una cosa che sui giornali e sui media, specialisti in autolesionismo, non leggiamo mai: ha fatto un elogio all’Italia, «per l’enorme sforzo fatto». Il riferimento è in particolare all’operazione Mare Nostrum, iniziata nell’ottobre 2013, dopo il tragico naufragio al largo delle coste di Lampedusa in cui annegarono ben 380 migranti. Mare Nostrum ha salvato certamente centinaie di vite, grazie alla scelta di una politica “search and rescue”, affidata alla Marina Militare. Si tratta di una procedura di salvataggio attivo che va aldilà del generico obbligo per i natanti di soccorrere chi si trova in difficoltà.
È una scelta di cui l’Italia si è fatta carico e che costa circa nove milioni al mese. Ma invece di essere condivisa e partecipata dall’Europa, come vera scelta di civiltà, viene mal digerita, in particolare dalla Germania e dai paesi scandinavi. Ma comunque la pensino i paesi del nord, il vedere i nostri militari sbarcare dalle fregate tenendo magari tra le braccia bambini piccolissimi, sopravvissuti all’esperienza durissima della traversata, è immagine che dovrebbe inorgoglire e inorgoglirci. Quasi un inno imprevisto alla vita.
Certo, resta poi aperta la grande questione dell’accoglienza, che pesa in gran parte sui paesi del fronte sud, Italia in primis, anche per via delle regole davvero “punitive” previste dal Trattato di Dublino (in base al quale la richiesta d’asilo va fatta nel primo paese di approdo). Ma l’emergenza sta mandando in tilt anche i sistemi di paesi in seconda linea e anche più attrezzati, come ad esempio l’Olanda.
Certamente, la capacità e la disponibilità all’accoglienza è uno dei parametri con cui si misura il grado civiltà di un paese. Ma l’accoglienza richiede anche acume politico, e quindi capacità di affrontare le situazioni non dove sfociano ma dove si generano. L’Europa da questo punto di vista brilla davvero per assenza di visione e di iniziativa politica: basti pensare all’anacronismo di aver voluto il quartiere generale di Frontex, l’agenzia per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere, a Varsavia. Cioè a 3800 chilometri dalla costa libica…