È una trappola e conviene non caderci perché ci si mette molto a uscirne e c’è il rischio di farsi del male. Dalle elezioni europee di maggio la Spagna è scossa dal successo di Podemos, così come la Francia lo è per quello del Fronte nazionale. Ogni parola pronunciata da Pablo Iglesias, il leader del nuovo partito spagnolo che ha ottenuto 1,25 milioni di voti, viene studiata nei dettagli. Podemos è un partito comunista, anche se non lo dice chiaramente. I suoi elettori non sono marxisti, né stalinisti, ma semplicemente gente scontenta. Ma il comunismo è tornato a fare quel che fece quando Lenin partì dalla Svizzera in un treno sigillato: approfittare dell’insoddisfazione.

Il caso del Fronte nazionale francese non è così chiaro, almeno stando alle parole di Finkielkraut: “Personalmente – ha detto alcuni giorni fa – non avrei mai votato un partito che si presenta come anticorruzione e antisistema e che erige a modello politico un autocrate come Vladimir Putin. Non mi piace il Fronte nazionale, ma non credo che sia un partito fascista. Trovo deplorevole il suo successo, ma mi guardo bene dall’insultare i suoi elettori”.

La tentazione non è solamente insultare gli elettori del Fronte nazionale o di Podemos, ma di tornare alla polarizzazione antifascista o anticomunista. Alcuni già spendono molte energie per evidenziare le pulsioni totalitariste del partito di Pablo Iglesias. La vecchia sinistra socialdemocratica si sente attratta dall’aria fresca del nuovo comunismo, mentre il centrodestra, povero di idee, costruisce con le critiche a questo nuovo partito un messaggio che sembra solido.

Nel frattempo la gente, che vorrebbe un cambiamento reale, viene dimenticata. Finkielkraut lo ha detto chiaramente: “Mi piacerebbe che le domande chi siamo? e chi vogliamo essere? siano fatte da tutti. Il tempo delle accuse, delle denunce, dell’antifascismo è finito”. Il filosofo francese alcuni giorni fa si espresso negli stessi termini usati da Del Noce nel 1945: “Il post-fascismo non deve essere un fascismo in senso contrario (antifascismo) ma il contrario del fascismo”. Una frase in cui al posto di antifascismo, fascismo e post-fascismo possiamo usare anticomunismo, comunismo e post-comunismo.

La contrapposizione tra antifascismo e anticomunismo è stata particolarmente dannosa nella storia recente della Spagna. Franco ha strumentalizzato l’anticomunismo per prolungare e giustificare per decenni una dittatura basata sulla repressione. Zapatero si è inventato dal nulla un antifascismo che usava senza pudore i morti della Guerra civile. L’ex Premier aveva bisogno di tale antifascismo e dell’anticlericalismo per giustificare il suo progetto. La miglior risposta a Zapatero è stata ricordare che la Spagna ha saputo compiere una transizione alla democrazia che ha superato la polarizzazione.

Guardiamo però, anche solo per un momento, a quello che c’è dietro le parole. Qual è la trappola dell’anticomunismo? Il comunismo è forse la penultima espressione del pensiero manicheo. E per questo vede nel mondo il bene e il male allo stesso livello e la dialettica tra uno e l’altro come positiva. Di fatto, attribuisce alla violenza un ruolo storico per dare il via a una nuova era. Lasciarsi trasportare da questo inganno porta a situarsi nel polo assegnato dalla dialettica, assumendo il ruolo di forza contraria (reazionaria). Il comunismo avrà sempre bisogno di anticomunisti. A Podemos conviene che ci siano persone che facciano il loro gioco.

Vincere il manicheismo non è facile. Le semplificazioni sono comode, anche se non costruttive. L’esperienza cristiana, che può aiutare molto in questo frangente, è sempre stata chiara: non c’è nulla che sia necessariamente sbagliato. La ragione, anche quella politica, può addentrarsi nella complessità: per distinguere gli elettori dai progetti, il desiderio giusto di un cambiamento da un’utopia che torna a essere violenta, il realismo da una giustificazione ingannevole…la lista è lunga.

Non vogliamo fronti, vogliamo capire come costruire una vita comune migliore. Anche Podemos può aiutarci a farlo se non cadiamo nella sua dialettica. La domanda di Finkielkraut – chi siamo? – è quella decisiva.