Il momento che il nostro paese sta attraversando si riassume piuttosto bene in due viaggi, ciascuno a suo modo importantissimo, a cui il nome dell’Italia si lega davanti al mondo intero.

Il primo viaggio è quello della Costa Concordia, dal Giglio a Genova (si spera): un viaggio reso possibile grazie a un progetto straniero, ma nonostante ciò traballante, sempre in bilico tra galleggiamento e inabissamento.

Ce la farà?, non ce la farà?, ci domandiamo, mentre le cronache mondane si soffermano per pura cattiveria sulle allegre notti di Schettino, di cui semplicemente non dovrebbe importarci più nulla. 

Nel viaggio della Costa Concordia ci specchiamo per tante ragioni: la sua precarietà ci ricorda la nostra precarietà, ci ricorda un paese che non sa (e forse non vuole) uscire dal pantano, così come la destinazione del suo viaggio – Genova – ci ricorda una città in crisi, con un tasso alto di disoccupazione, cui l’arrivo della Costa Concordia potrebbe dare un po’ di lavoro. 

È insomma la solita Italia, quella dei Rizzo, dei G.A. Stella, che specula sulle iatture magari per sistemare qualche cugino, l’Italia del Pil, che scava buche e poi le riempie e così produce reddito.

È l’Italia vecchia, insomma, quella che tutti conosciamo, quella che non cambierà mai, e noi con lei (anche se ci chiamiamo tutti fuori – che è poi il vero sport nazionale).

Poi, però, ecco l’altro viaggio. Dalla terra dei contributi facili, delle pensioni regalate, degli amministratori superstipendiati, dalla terra dei collusi ecco spuntare un giovane campione, un fuoriclasse, Vincenzo Nibali, che sta andando a vincere il Tour de France con distacchi abissali. 

Nibali ha un immenso talento, e lo sa, perciò lavora più degli altri, perché sul talento non ci si appoggia, il talento è irto di spine e guai a sedercisi sopra! 

Anche nel suo viaggio, tanto diverso da quello della Costa Concordia, noi ci riconosciamo, e a ragione, perché sappiamo che l’Italia non è soltanto quella delle tangenti, dei pizzi e bla bla bla – anche se occorre ammettere che stanno facendo di tutto per costringerci a pensarlo.

Ma l’Italia di Nibali esiste, ed è fortissima. È l’Italia di chi ama il proprio lavoro, di chi sa che per conservare è necessario innovare, e perciò non si siede sul passato. 

È l’Italia che dà il via a grandi progetti proprio mentre la crisi sembra infuriare – pensiamo, per restare a Milano, che è la mia città, a Porta Nuova, a City Life, alla sistemazione di Santa Giulia, che ne hanno ridefinito il volto: progetti come non se ne vedevano da decine e decine d’anni, concepiti prima della crisi e prima dell’assegnazione dell’Expo a Milano.

È un’Italia di cui si parla meno, quella del Salone del Mobile come del Meeting di Rimini. 

Tutte e due queste immagini − quella della Costa Concordia nel suo cammino incerto e quella di Nibali trionfatore sui Pirenei − appartengono al nostro presente: non si può non riconoscere che la prima è ancora molto forte, ma nemmeno si può far finta che la seconda non ci sia. 

E qui verrebbe da concludere: spetta alla politica se dar voce alla prima o alla seconda. 

Ma c’è qualcosa di più importante. Qual è la differenza tra le due Italie? Dove sta il discrimine? Una parola sembra, a questo punto, prevalere sulle altre: gratuità

Non sto parlando della generosità personale, né di qualcosa che si aggiunga all’ordinario “da fuori”. Mi riferisco invece a una qualità dell’ordinario, del lavoro quotidiano, delle cose che ci toccano ogni momento. Nessuno ci pagherà per amare quello che facciamo, ed è molto facile che nessuno ci paghi per aver lavorato a regola d’arte (anche perché sono in pochi a saper distinguere tra una cosa fatta così così e una cosa fatta bene).

C’è una passione per la verità, per la giustizia, per la bellezza, per la precisione che nessuno può vendere o comprare. È questo il filo sottile che separa le due immagini del nostro splendido paese.