Proviamo a tornare indietro di cent’anni. È il 28 luglio 1914, siamo in un piccolo sobborgo di Parigi. Charles Péguy ha concluso la faticosa produzione della quindicesima serie dei suoi Cahiers de la Quinzaine e ora, come tutte le estati, può ritagliarsi un poco di tempo da dedicare alla scrittura. Vuol continuare a difendere la filosofia di Bergson e, come al solito, così tanti pensieri e spunti lo sollecitano che le pagine si accumulano velocemente l’una sull’altra. Del tempo lo dedica anche ai tre figli, soprattutto al primo che ormai è adolescente, ed alla moglie Charlotte che è incinta del quarto. La concentrazione sulla scrittura e la quiete – trovata a caro prezzo – dell’ambiente familiare sono però attraversati da una grave preoccupazione. Giusto un mese fa l’attentato di Sarajevo ha incrinato definitivamente gli equilibri continentali e proprio oggi l’Austria dichiara guerra alla Serbia. Inizia la prima guerra mondiale e non passeranno molti giorni prima che il conflitto si allarghi e coinvolga altri paesi.
Infatti il 31 luglio la Germania lancia l’ultimatum alla Francia, che risponde con la mobilitazione generale. Péguy, che ha quarantun anni ed è un riservista, ha solo due giorni per organizzare la partenza. Saluta la famiglia, prepara lo zaino e poi va a Parigi. Ha bisogno di trovare qualcuno cui affidare i suoi cari nel caso non improbabile in cui non faccia ritorno: sarà lo stesso Bergson. Inoltre desidera riappacificarsi col maggior numero di quelli con cui si era scontrato: alcuni li va a visitare a casa loro, altri li riceve nell’ufficio dei Cahiers, ad altri lascia un biglietto. Così potrà scrivere di aver lasciato Parigi «con le mani pure. Vent’anni di schiuma e di scarabocchi sono stati istantaneamente lavati».
La concentrazione dei soldati francesi è a Coulommiers, poco ad est di Parigi. Péguy è il vice comandante di una compagnia di circa 150 uomini. Partono in treno verso il fronte tra ali di folla osannante: vivono tutti nella fallace illusione – comune anche agli avversati tedeschi – che la guerra sarà un affare di poche settimane e sicuramente vittorioso. Non sarà così. L’armata francese, sorpresa dalla tattica tedesca che effettua una manovra di accerchiamento invadendo il neutrale Belgio, deve rivedere tutti i suoi piani e arretrare frettolosamente per non cadere in una sacca. Giorni di marce sfiancanti di cui non si capisce bene lo scopo. Péguy – lo ricorda il memoriale di un commilitone sopravvissuto – ha l’energia fisica e morale di un giovanotto; non può credere che la disfatta sia vicina, nonostante le poche notizie che filtrano parlino di molte battaglie perse dai francesi.
Come ha lasciato Parigi con le mani pure, vuol lasciare questa terra – se così dovrà accadere – con l’anima pura e partecipa, il giorno dell’Assunta, alla messa; cosa che per la sua situazione familiare non aveva più fatto dai tempi in cui era ragazzo. Il 3 settembre, trovandosi accampato nei pressi di una chiesetta di campagna, passa parte della notte ad addobbare di fiori da lui raccolti la statua della Madonna, e a pregare. Alla sera del giorno successivo arriva la comunicazione che la controffensiva è imminente; l’ordine del Quartier Generale è quello di farsi ammazzare piuttosto che arretrare di un metro. Il 5 settembre il battaglione di Péguy si rimette in moto e la sua compagnia arriva a Villeroy verso le due del pomeriggio. I francesi sono in un campo di barbabietole, esposti ai colpi dei tedeschi asserragliati nel bosco. Parte l’attacco; il capitano è ucciso subito; Péguy prende il comando e incita i suoi ad avanzare. Viene colpito da una pallottola in fronte alle cinque e mezza. Non potrà mantenere la promessa che aveva fatto prima di partire: «Quello che scriverò al ritorno sorpasserà quello che ho fatto finora».
Ma quel che ha fatto e scritto è per noi una fonte di riflessione più che abbondante. Il lettore che voglia approfondirla potrà farlo anche al Meeting di Rimini, dove ci sarà una mostra dedicata al poeta della «giovane speranza».