Che cosa si può fare, che cosa si può sperare per Gaza? Prima di entrare nel merito diamo alcune indispensabili informazioni di base cercando così di porre rimedio, per quel che possiamo, all’inutile alluvione di video-notizie confuse, non situate e ripetitive che da settimane i telegiornali stanno in proposito facendo piovere su di noi. All’origine della crisi di Gaza c’è il blocco imposto a questo territorio da parte dei due stati con cui confina, ossia Israele e l’Egitto. Iniziato a seguito della vittoria di Hamas alle elezioni legislative palestinesi del 2006, l’embargo è divenuto un vero e proprio blocco nel 2007 quando Hamas con un colpo di mano assunse il controllo totale della Striscia di Gaza (circa 1.650.000 abitanti su una superficie di 360 kmq, una densità demografica paragonabile a quella del Comune di Milano) espellendone Fatah. Affacciata sul Mediterraneo ma priva sia di porto che di aeroporto, la Striscia di Gaza produce poco o nulla, e vive solo grazie ad aiuti internazionali che le giungono principalmente attraverso Israele.

Il flusso di prodotti essenziali giustificato da motivi umanitari – attualmente consentito da Israele attraverso i suoi punti di valico con Gaza — è pari a un quarto di quello che si registrava prima del blocco. Proviene da Israele anche buona parte dell’energia elettrica (anzi ormai tutta dopo la recente distruzione dell’unica centrale che esisteva sul suo territorio ) e quasi tutto il rifornimento idrico degli acquedotti di Gaza. Stando così le cose, agli abitanti di Gaza e ai palestinesi in genere converrebbe difendere le loro buone ragioni ispirandosi alla resistenza non-violenta di Gandhi piuttosto che alla teoria della guerra rivoluzionaria di Lenin; e a tutto ciò che da lui è derivato. Non c’è niente infatti di più dissennato che giocare la carta della lotta armata quando si è irrimediabilmente più deboli dell’avversario. Purtroppo però tutto quanto è accaduto in Palestina e nel Vicino Oriente dal 1948 ad oggi dimostra una radicale incapacità complessiva dei palestinesi e degli arabi in generale a leggere la realtà, a capire la situazione ed a tirarne le conseguenze. Anche quando con il passare del tempo qualcuno come Fatah, dopo aver a lungo brandito la spada, capisce che è meglio cambiare strategia, c’è sempre qualcun altro – come adesso è il caso di Hamas — pronto a riprenderla in pugno.

In risposta al blocco Hamas non ha infatti trovato di meglio che attrezzarsi per lanciare razzi “fatti in casa” sul territorio israeliano. Senza ripetere quanto già abbiamo scritto in precedenza (cfr. Israele, la pace e il nemico, Il Sussidiario, editoriale, 10 luglio 2014) limitiamoci a sottolineare che, appunto applicando alla lettera le teorie di Lenin, con i suoi lanci di razzi Hamas ha sfidato Israele fino a provocarne la reazione militare puntando cinicamente a fare leva sulle prevedibili distruzioni di case e morti di civili per riaccreditarsi in sede internazionale.

I palestinesi installano normalmente artiglierie, depositi di munizioni e basi di lancio di razzi tra le case e a ridosso di scuole, e finché possono impediscono ai civili di allontanarsi da luoghi ove si combatte. Gli israeliani cercano di colpire il meno possibile obiettivi civili, ma non quando vengono a trovarsi tra loro e chi gli spara contro. Pretendere poi che nella confusione e nell’eccitazione dei combattimenti nessuno faccia mai un uso ingiustificato della forza significa non rendersi conto di quale sia la realtà delle cose. I comandanti sul terreno possono fare molto per ridurre al minimo le atrocità della guerra, ma c’è un solo modo per ridurle a zero: non fare la guerra. Avevamo sperato che Israele si limitasse a difendersi dal lancio di razzi senza bombardamenti e senza incursioni di truppe di terra ma soltanto avvalendosi del suo dispositivo di difesa aerea; e nel contempo additando con forza al mondo l’aggressione di Hamas.

 

Ciò sarebbe stato comunque più immaginabile se Israele fosse stata certa di poter facilmente raccogliere così la solidarietà dell’opinione pubblica internazionale: un fatto invece tutt’altro che scontato. Adesso però siamo al punto in cui siamo. Hamas ha comunque il pieno controllo politico della Striscia di Gaza nonché una forza in campo che, pur essendo relativamente irrisoria, può venire tenuta a bada da Israele soltanto al costo di una mobilitazione militare che a lungo termine diventerebbe economicamente e socialmente insostenibile. Perciò, piaccia o non piaccia, per quanto concerne Gaza è con Hamas che si deve trattare. Chi potrebbe però mediare tra due parti, Israele e Hamas, nessuna delle quali vuol riconoscere l’esistenza dell’altra? Molto probabilmente, se ci fossero, un’Unione Europea e in particolare un’Italia finalmente capaci di fare la propria parte, ma dove sono?