«Noi, cristiani, siamo divisi tra noi; ma è poi vero che siamo divisi? Il cristianesimo è come una foresta. Tutte le piante affondano le radici nel terreno, nello stesso terreno, nello stesso suolo; ad alimentarle è la stessa vita che il Signore ha infuso nel terreno. E di lì crescono i tronchi. Tronchi che si sviluppano in parallelo, ma si protendono tutti verso la luce, il sole, il cielo; e per quanto siano separati fra loro, vivono tutti dell’unità della radice e della meta cui tendono… Se solo lavoreremo affinché la meta sia effettiva, reale, prima o poi le cime si toccheranno, e avverrà l’unità…». A cent’anni dalla nascita il metropolita Antonij Bloom (19 giugno 1914, 4 agosto 2013), autore di queste parole, continua a far parlare di sé in Russia, sfidando sia chi si imbatte per la prima volta nella Chiesa, sia chi rischia di fare l’abitudine a un codice di «comportamento ortodosso» di cui non ricorda più l’origine. Nel buio di recriminazioni o velleitarismi con cui oggi si vive sottolineando conflitti, spaccature, divisioni, queste parole sono una luce che riapre il cuore alla speranza: grazie a Dio non siamo in balia della nostra misura, c’è un Altro che ci fa e ci attrae a sé per il desiderio che costituisce la natura umana.
Per molti incontrarlo ha segnato una vera rivoluzione, o meglio la riscoperta della propria origine, come ha detto padre Petr Kolomejcev durante un incontro di preghiera nella chiesa che oggi raccoglie la comunità di padre Aleksandr Men’: «Un bel giorno mi è capitato in mano un suo libretto, e sono rimasto impressionato dal fatto che in quell’opuscolo ci fossero le risposte a tutte le domande che, come pastore, mi sentivo fare ogni giorno dalla gente… E ho capito che non c’è un salto fra la tradizione della Chiesa e l’esperienza che ne faccio io oggi».
Figlio di emigrati russi, ragazzino della banlieue parigina – oggi lo si definirebbe disadattato – a quattordici anni Antonij legge per scommessa il Vangelo (il più corto, quello di Marco, per poter dire una volta per tutte che Dio non esiste), e d’un tratto percepisce, senza alcun misticismo, che Cristo è lì presente. Si laurea in medicina, pronuncia in segreto i voti monastici e intanto partecipa attivamente alla Resistenza; poi diviene sacerdote, vescovo, esarca della Chiesa ortodossa russa per l’Europa occidentale, annuncia instancabilmente la fede sia nella diocesi affidatagli, sia anche in Unione Sovietica, nei brevi periodi di soggiorno legati ai suoi compiti ufficiali in seno al Patriarcato di Mosca. In tutta la sua vasta opera non c’è neppure una riga scritta a tavolino: l’imponente mole dei testi che ci sono rimasti è costituita unicamente da conversazioni, omelie, lezioni, lettere.
Curioso che il metropolita Antonij non si sia mai considerato un teologo, eppure una serie di istituzioni accademiche gli hanno attribuito prestigiosi riconoscimenti e lauree ad honorem, e proprio da lui è sorta e si sta sviluppando una nuova corrente di pensiero ecclesiale che – ha osservato ancora padre Petr – potremmo definire «teologia dell’incontro, della comunione». Ma i paradossi non finiscono qui: questa sua impostazione, profondamente radicata nell’ortodossia, si intreccia con nomi e cammini della tradizione cattolica latina che in questi ultimi anni sono diventati familiari anche agli ortodossi russi: Hans Urs von Balthasar, Luigi Giussani, Angelo Scola. «È impressionante – ha concluso padre Petr, dopo aver elencato questi nomi – che non vi siano mai stati contatti diretti fra queste personalità e il metropolita Antonij, eppure hanno detto la stessa cosa, o meglio testimoniato la stessa esperienza».
Il segreto sta probabilmente nel comune terreno della fede in cui si affondano le radici, e nel desiderio che fa protendere verso il cielo. Di quest’unità misteriosa non mancano indizi neppure oggi: ad esempio, per la recente affollatissima serata svoltasi in onore del metropolita Antonij alla «Biblioteca dello Spirito» di Mosca, i curatori dell’evento («Fondazione metropolita Antonij») hanno proposto come titolo il detto di Ireneo di Lione, «La gloria di Dio è l’uomo vivente», una delle frasi predilette del metropolita, che la ripeteva spessissimo. Esattamente la medesima frase su cui quattro anni fa ha incentrato il suo intervento don Julián Carrón, quando è stato invitato a parlare sulle sfide della fede oggi, come esponente del mondo cattolico, a un convegno organizzato dal patriarcato di Mosca che metteva a tema la «Vita in Cristo».