Questa settimana tre ragazzi israeliani sono stati rapiti e uccisi nella loro terra per motivi politici, decine di uomini ancora una volta hanno perso la vita in mare nel tentativo di approdare in Europa e un centinaio di persone sono state uccise tra l’Iraq e la Siria per la loro fede o per il fatto di trovarsi dalla “parte sbagliata” di una guerra che nessuno di loro ha cercato e voluto. Tutto questo è avvenuto mentre sui giornali si parlava degli occhiali autogriffati di Grillo, del passaggio di Floris a La7 e di come Fanny “Balotelli” si stesse consolando dalla cocente delusione mondiale concedendosi alcuni pomeriggi di shopping.
Il contrasto fra queste immagini è decisamente sconcertante, ma non bisogna cedere alla facile tentazione del moralismo e del qualunquismo: nella vita, infatti, ci sono momenti più leggeri e momenti più profondi ed è normale che, documentando oggi una grande varietà di vicende umane, si accostino tra loro situazioni agli antipodi e tra di loro incomparabili.
Eppure, nonostante questa doverosa precisazione, non c’è dubbio che la scelta delle notizie da comunicare risenta sempre di un criterio di fondo: vendere. Se un giornale si espone ad approfondire avvenimenti che “non tirano” deve prepararsi ad avere ricadute sconfortanti dal punto di vista del profitto e della popolarità. Ma, allora, perché certe notizie inutili e superficiali vendono moltissimo e altre, importanti e fondamentali, non interessano a nessuno se non agli addetti ai lavori?
La risposta è molto semplice: nell’informazione si vende soprattutto ciò che suscita emozione, ciò che risveglia dentro l’interlocutore un sentimento forte legato al vissuto. In questo modo ciò che conta non è più cosa comunicare, ma come provocare nel fruitore una sensazione. Succede spesso di vedere ai funerali persone che piangono pur non essendo state particolarmente toccate da quel lutto. Anche a me a volte accade: mi accorgo, in quei momenti, che non sto piangendo per quella persona o per il dolore a cui assisto, ma che sto piangendo per me, per i dolori che ho vissuto io e che quell’evento ha il potere di ridestare.
Un po’ cinicamente, ma neanche troppo, si potrebbe dire che l’altro non ci interessa, che il dolore dell’altro ci serve, ma che – salvo rare occasioni – non ci smuove. Lo testimonia il fatto, impressionante, che qualche momento dopo aver pianto siamo capacissimi di tornare alla superficialità più sconcertante senza nemmeno avvertire dentro di noi uno sbalzo emotivo. Il potere tutto questo lo ha capito e cerca ogni giorno di emozionarci, ben sapendo che le emozioni – se non diventano consapevolezze – fanno vendere molto e non cambiano nulla. Film, clip, pubblicità, musica sono pensati in funzione del movimento emotivo che possono innescare e si propongono di offrire gioia o lacrime “di facile consumo”, senza chiedere in cambio nessuna riflessione e nessuna presa di coscienza.
C’è una parola che, nella lingua italiana, descrive perfettamente questo atteggiamento sfrontato nei confronti degli altri e di se stessi: crudeltà. Uno dei tratti più significativi della nostra società è proprio quello di essere un sistema crudele, incapace di sentire veramente il dolore dell’altro e, quindi, di avere la percezione della reale conseguenza delle proprie scelte. Viviamo in un tempo crudele e rischiamo di essere persone crudeli: ogni azione e ogni decisione è tenuta in ostaggio non dalle conseguenze che essa può avere sugli altri, ma dalla sensazione che ci può dare. Vogliamo sentirci liberi? Lasciamo nostro marito o nostra moglie. Vogliamo sentirci approvati dagli altri? Chiediamo che il nostro amore, qualunque esso sia, possa avere un riconoscimento pubblico. Vogliamo sentirci chiamare “papà” o “mamma”? Pretendiamo che lo Stato ci dia un figlio. Vogliamo non sentire più sofferenza di fronte alla malattia? Chiediamo di staccare la spina. Ciò che davvero conta è, quindi, come ci sentiamo, come stiamo.
Pare davvero lontana anni luce, ma tremendamente attuale, la domanda che scandisce il capitolo 4 del libro della Genesi: a Caino che ha appena ucciso Abele Dio non chiede “Che cosa hai fatto?”, ma domanda “Dov’è tuo fratello?” rimandandolo alla responsabilità che ognuno ha dinnanzi al dolore e al vissuto dei propri fratelli. L’uomo non è un essere che possa vivere “per se stesso”: l’uomo è stato creato da Dio strutturalmente in comunione con l’altro. La sua stessa struttura sessuale, come anche il bisogno di nutrirsi di qualcosa di esterno dal suo Io, ci testimonia che noi siamo esseri incompiuti, che troviamo la nostra identità solo dentro il rapporto con i nostri simili.
Smettere di “sentire la vita dell’altro”, non percepire più le conseguenze delle nostre scelte sull’esistenza di chi ci sta accanto, o usare l’altro per suscitare in noi emozioni e stati d’animo, non solo ci fa crudeli, ma ci fa – soprattutto – meno uomini. Per cui possiamo pure piangere all’udire certe tragedie o al vedere determinati eventi, ma – con grande sincerità – dobbiamo avere il coraggio di chiederci quanto dureranno quelle lacrime, quanto ci interessi quel dolore, quanto stiamo piangendo per gli altri e quanto invece – ancora una volta – stiamo commiserando noi stessi.