Il burqa ha scatenato un terremoto in tutta Europa. Il Vecchio Continente reagisce con stupore alla sentenza della Grande Camera di Strasburgo che ha convalidato la legge francese 201 che lo ha proibito. Può una democrazia intromettersi in quello che una cittadina pachistana considera espressione della propria libertà religiosa? La domanda fu presentata con un ricorso appena la legge venne promulgata, con la consulenza di avvocati inglesi. I francesi e belgi hanno le idee chiare in merito, mentre in Gran Bretagna sono del parere che occorra rispettare la scelta delle donne. L’Europa postmoderna sembra dubbiosa. Il diritto può essere ancora espressione di quella ragione universale a cui faceva riferimento l’Illuminismo e limitare una scelta soggettiva che si rifà ai diritti fondamentali? Se si accetta questa restrizione, non si potrebbe vietare alla Chiesa cattolica, in nome della parità di genere, di riservare il sacerdozio agli uomini? La questione non è semplice.

La donna pachistana che aveva presentato ricorso sostiene che erano stati violati gli articoli 8 e 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che riguardano la vita privata e la libertà religiosa. Buona parte della sentenza è dedicata a esaminare se i poteri pubblici possono immischiarsi in questioni riguardanti questi due diritti. La questione in ballo è in nome di quali criteri si consente o si limita l’intervento della religione nella vita comune di un Paese democratico. Occorre qualche “ragione religiosa”? Il Vecchio continente, se è fedele alle sue origini cristiane, non può accettare un argomento basato solamente sulla rivelazione.

La tradizione cristiana, come ha detto Benedetto XVI al Bundestag, non invoca la rivelazione nella comunità politica, ma utilizza i criteri della ragione (sanata e illuminata dalla fede) e della natura. Ma dopo quello che è successo negli ultimi due secoli, possiamo ancora invocare il tribunale della ragione? Davanti a questa domanda l’europeo postmoderno vacilla. Non è quell’ingenuo illuminista di 200 anni fa. Sa bene, come diceva Goya, che il sonno della ragione può produrre mostri. Tuttavia, si deve ammettere che una decisione religiosa deve e può essere giudicata. Altrimenti perderemmo quello che ci è più proprio. Questo non significa scordarsi di quello che abbiamo imparato fin dal XVIII secolo: che questa valutazione non può essere affidata esclusivamente alla ragione positivista, alla ragione della maggioranza.

Il costituzionalismo contemporaneo, cosciente del pericolo dei mostri, limita la regola della maggioranza perché riconosce che c’è qualcosa che va oltre il consenso. Non si deve frenare questa sensibilità che si è sviluppata, in particolar modo, nell’Europa del dopoguerra. Il criterio della ragione può essere ripreso con il vigore con cui lo si sostenne agli inizi dell’Illuminismo, quando si parlava di una ragione soggettiva aperta e disposta a incontrarsi con la ragione oggettiva. Si tratta di quella che Habermas chiamava “sensibilità per la verità”. Anche la religione deve presentarsi dinnanzi a un tribunale di una ragione così intesa. 

Rawls esige giustamente che la ragione religiosa, nella vita pubblica, si traduca in una ragione antropologica. Questo esercizio non è solamente necessario per un’argomentazione laica, ma è un criterio per discernere il valore personale di qualunque esperienza religiosa. Il Tribunale di Strasburgo, fortunatamente, si muove su questo terreno. E ritiene giusto proibire il burqa perché minaccia la sicurezza pubblica e la fraternità.

Possiamo e dobbiamo continuare a discutere sui limiti del velo. Ma c’è un dato di fatto nella nostra natura: siamo relazione e il volto ne è l’espressione più evidente. È abbastanza chiaro per porre alcuni limiti all’uso del velo?