Con Papa Francesco occorre camminare: di fatto è un mutamento di prospettiva quello che questo pontefice ci impone. Il caso dei preti pedofili, con tutta la campagna stampa che vi ha fatto seguito e le strumentalizzazioni alle quali ha dato vita, ha scosso profondamente la Chiesa. Come è noto a tutti, non sono mancate fin dall’inizio le prese di posizione, né le condanne radicali. Già il grido di Benedetto XVI: “ne renderanno conto agli uomini ed a Dio!” non significava solamente pieno riconoscimento dello Stato di diritto, ma anche piena responsabilità dinanzi al ben più terribile e terrificante, almeno per un credente, tribunale divino. 



Già nei mesi appena trascorsi Papa Francesco è ritornato sul tema con termini di condanna radicale. In ogni occasione sono stati ribaditi i due argomenti principali che hanno definito un tale scandalo sin dall’inizio: solidarietà piena con le vittime e condanna radicale e senza mezzi termini per tutti coloro che, ai diversi livelli, hanno sottodimensionato il problema, magari fidandosi dei referti degli psichiatri e degli psicoanalisti ai quali i preti pedofili erano stati inviati. 



Eppure in questo caso c’è una rottura, se possibile, ancora più radicale, in quanto se già Benedetto XVI aveva espresso “apertamente, la vergogna e il rimorso”, Papa Bergoglio, incontrando le vittime, chiede a Dio “la grazia che la Chiesa pianga”. Si tratta di quello che – come ricorda Alain Finkielkraut – San Luigi chiamava “il dono delle lacrime”. Intorno alle vittime degli abusi, dinanzi all’enormità dei casi, non basta chiedere perdono, ma occorre prendere la misura del dolore che si è inflitto all’altro; è necessario fare esperienza del dolore presente sul volto di chi abbiamo violato e tradito. Esattamente come Pietro ha dovuto sostenere lo sguardo di Cristo che aveva appena rinnegato così, come Chiesa, dobbiamo sostenere lo sguardo delle vittime dei nostri peccati. Perché non ci saranno mai risarcimenti che terranno, mea culpa e contrizioni pubbliche, che potranno consentirci di risparmiarci il dovere di sostenere la pena di quegli sguardi che, silenziosamente, ci inchiodano a ciò che abbiamo fatto. Prima di qualsiasi analisi, a monte di qualsiasi ricostruzione dei fatti e dell’accertamento delle responsabilità, c’è infatti il dolore degli innocenti. 



Accanto al Papa, nella cappella di Santa Marta dobbiamo allora starci tutti: mai come in questo momento il Santo Padre ha bisogno del sostegno di tutta la Chiesa, nel reggere lo sguardo delle vittime offese, degli innocenti che erano stati affidati ai suoi pastori e questi, invece, hanno tradito e violato. 

Sarebbe tuttavia un errore archiviare il gesto del Papa come una semplice testimonianza – l’ennesima – della sua sensibilità personale e della sua sollecitudine pastorale. Non si può infatti non prendere atto di essere dinanzi ad un gesto di portata ben più vasta della singola vicenda, un gesto che possiede un carattere esemplare: manifesta un principio e inaugura un cammino.

Nessuno di noi può aspirare ad essere perdonato senza essere disposto a porsi dinanzi allo sguardo di chi ha violato, di chi ha ferito, di chi ha umiliato e talvolta schiacciato, in mille modi. Il dono delle lacrime è il dono del dolore all’interno di noi stessi. In questo caso è la necessaria prova di vita interna che la Chiesa deve a chi l’ha costituita. Solo una Chiesa capace di piangere può non essere ridotta alla sua dimensione istituzionale, perfettamente riducibile all’insieme dei ruoli e delle funzioni che la caratterizzano, per manifestarsi invece come una presenza umana che vive e soffre, per le sue costanti inadeguatezze dinanzi al bene immenso – divino – che le è stato affidato. Solo una Chiesa che sta dinanzi al volto dell’innocente che ha sofferto ciò che essa stessa gli ha inferto, solo una Chiesa che chiede a Dio “il dono delle lacrime”, può commuoverci e meritare di essere seguita.