Il potere della propaganda

Una mostra nel centenario dello scoppio della Prima guerra mondiale rende evidente a cosa può portare il potere della propaganda. Per evitare la guerra servono uomini capaci di giudicare

In questi giorni a Vienna si sta tenendo una mostra dal titolo “Ai miei popoli”. Nel manifesto il ritratto dell’Imperatore Francesco Giuseppe, con i suoi inconfondibili baffi austro-ungarici, e l’invito a ripercorrere le tappe principali che hanno segnato la Prima guerra mondiale. L’esposizione si tiene nella Sala principale della Biblioteca imperiale, un’imponente e grande stanza decorata nel più classico stile barocco, in cui, sugli scaffali di mogano, sono raccolti più di 200.000 volumi editati in Europa tra il 1500 e il 1850. Gli imperatori non volevano solo fasti e musica, ma puntavano anche sui libri.

La mostra ripercorre cronologicamente gli eventi, dall’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando fino alla resa di Carlo, l’ultimo imperatore. Sono stati raccolti i testi originali di Francesco Giuseppe che rendeva pubblici man mano che la guerra avanzava. Tutti cominciavano con il saluto “Ai miei popoli”. Ogni testo è accompagnato da documenti di arruolamento, giornali dell’epoca, vignette, materiale didattico e una serie di elementi che permettono di rivivere quegli anni. La maggioranza è materiale di propaganda, utilizzato per mantenere alto il morale della popolazione.

Al centro della stanza, uno schermo proietta una serie di foto. Le prime immagini riflettono l’entusiasmo suscitato prima dalla guerra contro la Serbia e poi dall’estensione del conflitto. Questa società imperiale, che è stata sepolta dopo il 1919, con le sue cerimonie e pomposità credeva, nell’agosto del ‘14, che stesse per cominciare una festa. Gli ufficiali si facevano ritrarre con le loro uniformi come se fossero stati invitati a un ballo. I giovani affollavano le strade e sui loro volti si può scorgere la generosa allegria di chi intraprende una nobile causa, insieme al cameratismo militare. L’imperatore è ritratto di buon umore. Non sembra intuire la disgrazia cui lo sta portando il militarismo germanico. Né l’errore commesso nel 1915, quando c’è stata l’entrata in guerra con l’Italia: si è trattato infatti di un punto di non ritorno.

Man mano le immagini cambiano. Compaiono i volti segnati dei soldati, quasi bambini. Le prime trincee che presto si trasformano in labirinti della morte in cui le facce dei combattenti mostrano una stanchezza inespressiva, senza sorriso o luccichio negli occhi. È facile riconoscere in esse il dolore per i compagni perduti, gli orrori visti, la fame, la paura e il freddo. Poi compaiono i corpi mutilati, abbandonati sul campo di battaglia, i cadaveri congelati, il fango, le macchine di distruzione. I volti sono nascosti dietro maschere antigas, che con quei due occhi di vetro sembrano teschi. E verso la fine, l’immagine di un adolescente in uniforme che colpisce perché guarda direttamente nella camera. Il suo silenzio sembra essere una grande domanda che risuona come un grido diretto a ognuno dei libri della biblioteca, agli autori delle più grandi opere del pensiero europeo moderno: com’è stato possibile tutto questo?

La guerra, come fa capire la mostra, aveva ridotto quasi tutta la ricchezza culturale a propaganda. Persino il potere più debole tra quelli che si affrontarono in quei giorni, quello dell’Impero austro-ungarico, insegnava nelle scuole a odiare i nemici, a giocare con le bombe, a giustificare le barbarie. Tutto il sapere europeo fu incapace di fermare un potere che utilizzava una complessa macchina capace di sottomettere le più elementari esigenze di giustizia e verità.

La lezione che si impara in questi giorni nella Biblioteca imperiale di Vienna è evidente: non c’è eredità, non c’è passato, per grande che sia, capace di fermare il potere. Solamente un uomo – forse come l’adolescente di quell’immagine – che giudica, che distingue il vero dal falso, l’umano dal disumano, può fare da contrappunto.

Anche il buon imperatore Francesco Giuseppe è stato divorato da questo potere e ha portato i suoi popoli alla rovina. Ogni messaggio, “ai suoi popoli”, ha approfondito la tragedia. Quando suo figlio Carlo ha firmato la pace era troppo tardi: la Francia aveva deciso che era il momento di intonare il Requiem per un impero defunto.

Il corpo di Francesco Giuseppe riposa a pochi metri dalla Biblioteca imperiale nella Cripta dei Cappuccini. Una bara semplice, senza adorni, raccoglie i suoi resti. Merita una preghiera per il suo eterno riposo. E i popoli meritano la libertà, soprattutto nei confronti di un potere che è diventato più sofisticato di cento anni fa. Sta a noi distinguere quel che ci rende più umani.

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