Non ci fu bisogno di sacerdoti perché il cristianesimo nel 1700 cominciasse a fiorire in Corea. Ad iniziare tutto fu infatti un gruppo di laici, incuriositi dalla lettura della Bibbia e dagli echi della predicazione dei missionari che arrivava dalla Cina. Nel 1784 uno di questi laici, Lee Seung Hun, venne mandato a Pechino, dove fu battezzato. Al suo ritorno battezzò a sua volta tutti gli amici del suo gruppo. Così era nata la Chiesa in Corea. Non ebbe vita facile perché, come ha spiegato padre Lombardi presentando il viaggio di papa Francesco, «per più di un secolo i cristiani, i cattolici vennero martirizzati in quanto considerati in opposizione, non coerenti con il sistema sociale, culturale della Corea del tempo». E uno dei motivi del viaggio di Bergoglio è proprio quello di celebrare la beatificazione di 124 di questi martiri “laici”.



Come si può capire, la quattro giorni coreana del Papa si annuncia densa di riferimenti e di temi che riguardano tutta la chiesa. Parole come missione e come martirio sono parole di straordinaria e drammatica attualità, e l’esperienza del paese asiatico può essere certo utile ad approfondirne il senso. Sono anche due parole strettamente connesse, come ha ben spiegato uno dei promotori di questo invito al Papa in Corea, padre Lazzaro You Heung-sik, vescovo di Daejeon, intervistato da Gianni Valente per Vaticaninsider: «Qui il cristianesimo si è diffuso per l’opera apostolica di laici battezzati e in forza della testimonianza resa dai martiri. Nella vita quotidiana e nel martirio, i cristiani coreani hanno testimoniato che l’annuncio del Vangelo si diffonde per grazia, e non per sforzo umano. Il Papa mi ha detto: dobbiamo pregare che i miracoli continuino, solo così la Chiesa in Corea potrà continuare a camminare e a crescere».



Quella coreana è una chiesa nata non in forza di un progetto, non in forza di proselitismo, ma in forza di un’attrazione e di un’appassionata fedeltà al vero. È impressionante ripercorrerne la storia, e vedere come questo primo nucleo di uomini sia riuscito non solo a resistere, ma addirittura  a crescere in condizioni inimmaginabili, con periodiche persecuzioni che colpivano le persone più rappresentative, con un senso di lontananza rispetto alle strutture ufficiali della chiesa, se si pensa che la diocesi di Pechino distava 1200 chilometri dalla capitale Seul. Eppure accettarono anche, con gesto di obbedienza, di rinunciare al culto degli antenati che faceva parte della loro tradizione, come aveva loro indicato il vescovo di Pechino. E quando finalmente ebbero un sacerdote, mandato per loro dalla Cina, per proteggerlo dalla persecuzione ci fu chi gli fece da schermo e si fece passare per lui, finendo in prigione e morendo in seguito alle torture subite. Le autorità si accorsero dell’inganno, ma nessuno rivelò mai il rifugio del sacerdote cinese, anche a costo di pagare spesso il silenzio con la vita. 



Oggi la chiesa coreana è una chiesa molto viva, la seconda più importante del continente asiatico dopo quella filippina, con 5 milioni di fedeli (il 10% della popolazione) e 100mila battesimi all’anno. Com’è potuto accadere un “miracolo” di questo tipo? È sempre padre Lazzaro You a dare una spiegazione: «Un terzo dei martiri coreani venivano dalle terre della mia diocesi. Erano scappati nei paesini di montagna per sfuggire alle persecuzioni e lì avevano custodito la fede vivendo in piccole comunità sull’esempio della Chiesa degli apostoli, amandosi e aiutandosi l’un l’altro. Per loro la fede e la vita erano la stessa cosa».

Un legame “avvincente” in ogni senso tra fede e vita. È così che la persecuzione in Corea anziché produrre paura, com’era nella convinzione del potere, ha generato continuamente nuove vocazioni. E ha sostanziato una speranza che vale pienamente ancora per le migliaia di persone e di giovani che si preparano ad incontrare papa Francesco.