Il presente, tempo della santità

Papa Francesco è in Corea. Per non lasciarci ingabbiare in quello che eravamo, rendendo inutile la fede, occorre essere vigili. Perché Cristo è nostro compagno adesso. MAURO LEONARDI

La chiesa di Corea è giovane e i cristiani di adesso sono diretti discendenti di martiri recentissimi. Appena arrivato, il Papa ha detto ai vescovi coreani che devono essere custodi della memoria e custodi della speranza e ieri, nell’incontro coi giovani, ha fatto vedere come si fa. La memoria è un atteggiamento verso il proprio passato – bello o brutto non importa -; la speranza è il medesimo giusto atteggiamento, ma rivolto al futuro. Ieri i giovani, con le loro domande, hanno portato il Papa a fare, dopo la lezione teorica, quella pratica, a mostrare come si realizza.



I giovani hanno parlato del passato bello da commuovere (i recenti martiri del comunismo) e del passato con ferite che peggio non si può (la divisione in due della Corea). Poi hanno parlato della scelta vocazionale, cioè della speranza che più speranza non si può. Francesco ha mostrato che “memoria” e “speranza”, le due parole-consegna date ai vescovi il giorno dell’arrivo, non sono due parole che vogliono dire solo prima e dopo, passato e futuro, ma sono due parole che indicano un certo tipo di relazione col passato e col futuro: sono il rapporto nutriente che hanno con l’oggi, con l’adesso, col presente. 



Ecco la citazione: “Essere custodi della memoria significa qualcosa di più che ricordare e fare tesoro delle grazie del passato. Significa trarne le risorse spirituali per affrontare con lungimiranza e determinazione le speranze, le promesse e le sfide del futuro”. Io, quando leggevo, al posto di Corea ho messo il mio nome, quello della mia parrocchia, della mia realtà ecclesiale, e mi ci sono ritrovato. Ho detto: è per me, per noi. Dio è eterno presente e se noi vogliamo camminare nelle sue orme dobbiamo vivere a sua immagine in un presente vigile. Senza malinconie per il passato o blocchi per ferite ricevute, e senza fughe in avanti. 



Sì, invece, a memoria e speranza che diventano progettualità. Il Papa avverte che si può perfino essere chiusi nel passato per la nostalgia del “com’era bello quando eravamo martiri”. Francesco dice: “la nostra memoria dei martiri e delle generazioni passate di cristiani deve essere realistica, non idealizzata e non trionfalistica”. Io potrei dire: com’era bello quando il mio Fondatore era ancora in vita; ovvero, da quando non c’è più il don Pino che mi aiuta, le cose non sono più le stesse. Oppure si può rimanere bloccati nel passato per delle ferite che sto ancora lì a leccarle. 

Per questo secondo rischio, il Papa mi ha detto che è importante che mi chiedo dov’è girata la mia testa, cosa guardano i miei occhi. Perché potrei scoprire che non sto camminando ma che vivo sul tapis roulant. Un presente che cammina su sé stesso con lo sguardo indietro, non è un presente che serve, perché la nostalgia e il blocco sulle ferite non sono memoria. “Guardare al passato senza ascoltare la chiamata di Dio alla conversione nel presente non ci aiuterà a proseguire il cammino; al contrario frenerà o addirittura arresterà il nostro progresso spirituale”.  

Così dice Francesco ai vescovi coreani. Ce lo scordiamo che la realtà è il presente? che la memoria è viva se è vissuta e non rimpianta? Quante volte nella mia vita singola ed ecclesiale si alza il lamento della memoria come bel tempo andato? Quando eravamo pochi, quando eravamo poveri, quando eravamo pieni di buono spirito. Quando “eravamo”, insomma. Il Papa invece parla del passato – anche quello dei martiri che, per la chiesa, è una roba che meglio di così non si può –  come di qualcosa che non va né idealizzato né “trionfalizzato” ma va saldato, cucito, a quello che siamo e che saremo. 

Il Papa non lo sa ma parla di mia zia Anna, una ricamatrice amica di mia nonna che io chiamavo zia. Avete mai visto ricamare? L’ordito che sparisce sotto la trama? L’ordito, che se non è ben teso, non regge il filo e il disegno non viene? Avete mai visto un ricamo alla fine? Si vede solo il disegno, quello che era nell’immaginazione della ricamatrice. Il disegno è la speranza, il progetto. E l’ordito non si vede più. Mai vista una ricamatrice piangere e recriminare sull’ordito che non si vede più, sui rocchetti, sulle matassine di filo che non ci sono più. Non avrebbe senso. Lei è contenta per il disegno, che la mano ha seguito a memoria. 

Ecco, la speranza è il presente da farsi, attento, vigile. Due giorni fa il Papa parlava ai vescovi non per fare teologia ma per fare quello che poi ha fatto coi giovani. Come mia zia Anna, la ricamatrice. Un ordito ben teso, la memoria ben fissa in mano. Una memoria viva, quella dei martiri, fissa nella nostra memoria di oggi, memoria nel presente. Un ordito pronto a reggere un disegno, che per ora è ancora nella matassina, nella  mano, nella mente, della ricamatrice. Una memoria che non è rimpianto di quanto grande è stato il passato eroico di una chiesa che, se cadesse in simile errore,  da viva diventerebbe presto vivacchiante. Un ordito teso, una memoria viva, presente, pronta per essere ricamata e reggere il peso del filo, della mano, del disegno. Capace di scoprire che il presente vigile è il tempo della santità. 

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