Da diversi decenni il Medio Oriente è teatro di un conflitto permanente nel quale le operazioni di guerriglia e gli atti di terrorismo si sono spesso alternati ai massacri della popolazione civile. L’ultimo episodio, l’avanzata del califfato nei territori dell’Iraq, si sta segnalando per la serie di stermini perpetrati dalle bande dell’Isis, stermini che colpiscono tutta la popolazione civile presente sui territori occupati qualora non aderisca alla religione islamica proclamata dal nuovo califfo. 



All’interno di questa, la minoranza cristiana è costretta come le altre alla fuga ed è oggetto di una violenta persecuzione nella quale i morti raggiungono oramai le decine di migliaia di persone. Ma c’è di peggio. Com’è stato segnalato dagli osservatori, la vittoriosa avanzata del califfo al-Baghdadi – accompagnata da un’efficiente capacità mediatica – sta raccogliendo intorno a sé le ali più estreme del fondamentalismo islamico presente nelle periferie delle capitali occidentali. Qualsiasi avanzata ne rafforza il fascino presso i più giovani. Non è solo una guerra, si tratta di un’invasione aggressiva e cruenta dietro la quale, attraverso il “villaggio globale”, si produce una reazione a catena di portata incalcolabile.



È dinanzi a questo scenario che le parole di Papa Francesco hanno un effetto deflagrante: dichiarare che “occorre fermare l’aggressore ingiusto” è un principio morale che ha un carattere ecumenico, va al di là dei perimetri delle diverse religioni per abbracciare un sentimento universale. Non lo si può non condividere. Con Papa Francesco il cuore cristiano svela la sua profonda affinità morale con i sentimenti più profondi dell’animo umano di ogni tempo e di ogni epoca. Ma quest’affermazione non è una semplice iscrizione della sensibilità cristiana nello spazio, più ampio, di una sensibilità laica universalmente condivisa. È riduttivo pensare che il Papa si sia “arreso” ad un principio di buon senso universale, iscrivendo all’interno di questo la sensibilità cristiana. 



In realtà qui c’è ben altro e la prospettiva indicata dalla sensibilità cristiana al buon senso universale non è affatto senza conseguenze. “Fermare l’aggressore ingiusto” attraverso il ricorso a mezzi che verranno decisi dalle Nazioni Unite e quindi non registreranno il monopolio di pochi sul destino di tutti, non è solo un’indicazione di realismo politico. Dietro c’è anche un monito le cui radici sono profondamente religiose. Si tratta di fermare il peccatore mentre commette peccati, impedirgli di compierne altri. Si tratta di toglierli quindi la possibilità di fare del male, di disarmarlo, di sfilargli il kalashnikov dalle mani e di svuotarne gli arsenali, non di neutralizzarlo, magari annullandolo nella sua stessa vita. Così come non si tratta di giungere a “legargli le mani” togliendogli l’autonomia e quindi annullandolo nella sua esistenza politica. 

Se sul piano pratico l’operazione finirà per essere ugualmente cruenta ed i morti finiranno comunque per esserci, il principio operativo è radicalmente diverso. Il nemico non è qui identificato per la sua ideologia, la sua visione del mondo, la sua cultura, per quanto diametralmente opposte possano essere e per quanto possano risultarci aberranti. Il nemico non è nemmeno identificato come tale. La scelta di intervenire non è dovuta a ciò che egli è, ma a ciò che egli fa, non è causata dai principi che professa bensì dalle azioni che compie: questi non è che un “aggressore ingiusto”. 

Se nell’etica moderna il fine giustifica i mezzi, indicare un fine al posto di un altro non può non avere conseguenze rilevanti. Nell’epoca dello scontro tra civiltà e dei conflitti tra visioni del mondo radicalmente diverse, dove una ha dichiarato la guerra senza quartiere a tutte le altre, ridefinire l’uomo attraverso ciò che fa e non classificarlo per ciò che pensa non è una svolta da poco. Papa Francesco si pone immediatamente a latere delle guerre che vengono imbastite da oltre tre decenni sulla base di ciò che gli altri sono, là dove la conquista impone l’annullamento dell’autonomia politica e l’imposizione del vincolo di dipendenza, quando non addirittura – come nel caso attuale – l’obbligo di pensare in altro modo, quindi di scegliere tra il convertirsi, pagare una tassa o l’essere cacciati quando non addirittura uccisi. 

Un tale passaggio dalla condanna del pensiero all’impedimento degli atti che talvolta ne conseguono è destinata ad avere conseguenze enormi e sarà proprio a Papa Francesco che si dovrà riconoscere il merito di averlo compiuto.