Un meeting che si apre con lo sguardo del custode di Terrasanta Pizzaballa e si chiude con il racconto di Paul Batthi e Monsignor Warduni, storie di Pakistan, di Iraq, di cristiani di frontiera. E in mezzo tiene tutto: l’economia, la storia, il mondo, le periferie, i ragazzi che lavorano, guidano, accompagnano e chi, invece, gli incontri del Meeting li ha pensati; i testimoni venuti dall’altra parte del mondo e i protagonisti della vita italiana. Tutti qui, racchiusi tra un incontro di inizio e di fine che vivono di uno sguardo dentro le cose estreme di questo nostro tempo, storie di esistenze quotidiane segnate da un eroismo lontano, che fa poco rumore.
Sono un inizio e una fine che definiscono il perimetro di un essere cristiani non rituale nella semplicità profetica delle parole di Padre Pizzaballa, quelle che segnano il Meeting fin dal primo istante.
Il Meeting appunto.
Pensavo, presentando Emilia Guarnieri nell’incontro di inizio, mentre scandivo la sua qualifica di presidente… è il “Meeting per l’amicizia tra i popoli”… e mi dicevo, ma da quanto tempo è che non sento il nome tutto per esteso, da quanto tempo non mi fermo a pensare da cosa è nato, quale è il senso di un incontro che si rinnova, che include i simili, i diversi, le esperienze contigue, quelle infinitamente diverse.
Chissà se accade solo a me.
Anche io vittima delle regole del mainstream dunque, del pensiero dominante che abbrevia i nomi, trasforma il senso delle cose. Pensiero unico che si nutre di luoghi comuni e, a sua volta, produce luoghi comuni nei quali soffoca ogni sguardo storia o esperienza.
Mi sono quasi dimenticata la dicitura del Meeting per intero.
Forse non sono stata la sola.
Forse c’è stato un tempo in cui perfino chi ha creduto profondamente nel Meeting si è lasciato sedurre più dall’effetto mediatico dei grandi nomi da talk show che dallo sguardo delle persone fra gli stand. Dall’effetto prima pagina, piuttosto che dalla bellezza delle persone e del loro incontrarsi, dell’aprirsi insieme all’esperienza del mondo arrivato in questo scampolo di riviera.
Forse.
Eppure, mai come quest’anno, la coesistenza tra l’esperienza del reale, la dimensione quotidiana e politica della vita di ogni giorno e il pensiero sui grandi temi sulle questioni urgenti del mondo sembravano aver trovato un equilibrio, un senso profondo.
Un anno pieno della forza del reale.
Di cose che si vedono, che sono. Cose che raccontano mondi, comunque le guardi. Senza un codice d’accesso. Racconti che ti attraversano quasi tuo malgrado, e non serve avere la password di CL per esserci dentro. Sono storie, occhi e persone che testimoniano un modo di essere, se solo decidi di guardare.
E’ il “fenomeno Meeting”.
Che continua ripetersi al di là di quel che il mainstream, il pensiero dominante, vorrebbe o è disposto a capire.
Quello che tiene inchiodate alle panchine dell’Avsi decine di persone affascinate da una mostra in cui si racconta come l’idea di bellezza è quella che permette ai ragazzini degli slum di Nairobi di avere una nuova prospettiva di esistenza.
Quel fenomeno Meeting che ti fa scoprire le icone cristiane d’Etiopia, che ti fa ascoltare l’eco della storia della civiltà nelle parole del Prof. Matthiae e che trasforma famigliole con tanti bimbi in gruppi d’ascolto privilegiati sulla storia, la scienza, l’arte.
“Testimoni di libertà” è l’ultimo incontro. Un finale per tornare all’apertura, una settimana fa, e dire la libertà a caro prezzo di chi vive in luoghi in cui si paga con la vita la propria fede.
Testimoni di libertà. Forse è quello, e altro.
È anche la libertà assai meno pericolosa, ma non certo scontata, di ricominciare a guardare dentro quel che ognuno di noi fa. E tornare a scegliere.
Nonostante l’abitudine comoda ad abbreviare le definizioni. Nel nome del mainstream.