La miseria, dice Camus, è “una fortezza senza ponti levatoi”. Un soggetto spiaggiato sui soli problemi della necessità materiale, aggiunge Alain Finkielkraut, non ha più contatti reali con gli altri, è oramai completamente rinchiuso nella propria prigione di bisogni immediati: ne è prigioniero.
Cosa unisce i ladri che svuotano le casse per poi scrivere biglietti di scusa – come se il danaro sottratto non finisse per essere recuperato penalizzando altri poveri – ai mendicanti di strada, che aggrediscono e massacrano a colpi di bastone gli eventuali concorrenti, al fine di aggiudicarsi il controllo del marciapiede per il consueto accattonaggio quotidiano? Apparentemente nulla, se non il fatto che, almeno in linea di principio, in entrambi i casi sembra affermarsi un’idea comune: quella che il patto sociale possa in qualche modo ammettere deroghe, consentire margini di autonomia, quando non addirittura essere completamente riscritto. La crisi è giunta oramai a corrodere le basi della convivenza i cui principi si fanno sempre più vaghi, la strada può rapidamente elaborare regole aberranti.
Ma veramente c’è solo questo? Possiamo realmente fermarci all’ennesima registrazione del degrado emergente in una miseria fuori controllo? O forse c’è qualcos’altro? Per capirlo occorre rileggere il messaggio lasciato dal ladro del centro visite della riserva naturale “Lecceta di Torino di Sangro” in provincia di Chieti: “Scusatemi, veramente ero morto di fame. Grazie di tutto”. Non si tratta solo di un messaggio di scuse, ma anche di un tentativo elementare di dire qualcosa, tentare di spiegare. C’è molta solitudine in quelle poche parole lasciate su di un foglio, una solitudine che si intreccia ad una volontà di parlare.
Probabilmente c’era molta solitudine anche nelle parole di Jonas, uno dei quattro clochard polacchi massacrati a Genova nello scorso mese di gennaio per il racket del marciapiede. Anche se si tratta di una solitudine diversa, vissuta in un micro-gruppo di vite umane ridotte ai margini della vita sociale. Emerge allora un problema di gran lunga più profondo e tremendo di quanto non possa esserlo quello di volersi costruire un codice di regole in proprio: c’è la deriva di una miseria che è oramai caduta all’indietro, dentro l’ossessione di una necessità materiale che non le lascia più margini, che non le consente più un mondo esterno a sé, che si è separata dal mondo ed è diventata una fortezza “senza ponti levatoi”.
Ad una tale miseria non si può rispondere con le due o le tre monete e nemmeno con i trenta denari. Occorre recuperare quell’attenzione alla persona, quella “considerazione della persona” della quale queste solitudini hanno profondamente bisogno. Ignorare quest’aspetto, pensare che tutto si possa risolvere con una beneficenza senza relazione, vuol dire mancare l’obiettivo e magari alimentare il racket. In una società come la nostra, la vera emergenza non è solo quella materiale. Accanto al pane che può mancare c’è quella di una relazione che può non esserci, lasciando che i poveri cadano all’indietro, si lascino andare nella loro fortezza, senza più altro problema che sopravvivere alla notte, dormire e mangiare domani, forse. Nella società del benessere materiale ci si dimentica con facilità di come la relazione con l’altro venga prima, di come sia questa a costituire la priorità, la prima autentica emergenza.
La solitudine finisce così con il costituire la vera gabbia nella quale ogni povero rischia di precipitare, passando così dalla povertà alla vita miserabile, dalla scarsità di mezzi alla mancanza delle relazioni, dall’anonimato all’invisibilità. Nessun uomo dovrebbe essere lasciato in uno stato di povertà, ma è ancora più inaccettabile che un uomo possa essere lasciato nella solitudine della propria miseria, nel vuoto della propria fortezza “senza ponti levatoi”, dalla quale non può più uscire.