Così mi immagino quel 14 settembre 1964, giusto cinquant’anni fa. Vasilij Grossman è a letto nel suo modesto appartamento di Mosca, sente che la sua vita si sta spegnendo e si interroga sull’imperscrutabile e ingarbugliato destino che essa ha avuto. Ripensa all’infanzia nella nativa Ucraina e gli si stringe il cuore al ricordo della madre rinchiusa nel ghetto ebraico quando la sua patria era stata occupata dai nazisti. Proprio a sua madre aveva dato voce in un personaggio del suo capolavoro, che racconta in una struggente lettera al figlio gli ultimi giorni di vita, coscienti dell’imminente destino di morte. Quella lettera si concludeva con un augurio che era sia un grido che una preghiera: «Vivi, vivi per sempre…».
E lui, Vasilij Semënovic Grossman, aveva vissuto, vissuto come meglio gli era riuscito. Scoperto il suo dono di scrittore, lo aveva messo a disposizione della costruzione degli ideali sovietici; ma senza girare la faccia per impedirsi di vedere le ingiustizie di quel sistema. Poi era venuta la guerra e lui, da inviato del quotidiano dell’Armata Rossa, l’aveva vissuta e descritta senza orpelli o doppi fini; nell’immane crogiuolo di dolore ed eroismi di Stalingrado aveva lucidamente osservato le conseguenze distruttive di ogni ideologia e si era sorpreso per lo splendore di gesti e parole che fanno sperare che l’umanità dell’uomo non sia del tutto perduta. Aveva visto l’inferno di Treblinka e ne aveva tratto un reportage che i sovietici vincitori non vollero pubblicare: anche loro volevano perseguitare gli ebrei.
Nel letto, Grossman ripensa con un sorriso mesto a quando aveva sottoposto il manoscritto di Vita e destino al Gran Custode dell’ortodossia sovietica Suslov; «Passeranno secoli prima di pubblicarlo» gli sveva risposto. Ormai era chiaro che sarebbe morto prima di vedere quel libro stampato; sperava soltanto nei due manoscritti che aveva nascosto da amici fidati: un tempo forse, quando sarò morto, qualcuno li disseppellirà.
È ormai sera, Grossman sa che non arriverà a domani. Scaccia il dubbio menzognero che quella sua vita, che tutto quello scrivere sia stato vano. No, il suo vivere e il suo scrivere sono stati della natura di quei gesti semplici per cui, invece di sfasciarsi sotto il peso del male, l’umanità resiste e fiorisce.
Gesti che aveva visto con stupore e descritto con commozione: la vecchia russa che, piuttosto di infierire contro il tedesco vinto, gli dà un tozzo di pane; l’ufficiale che non approfitta del suo grado per portare a letto la giovane telegrafista e la lascia andare insieme al soldatino di cui sa che lei è innamorata; lo scienziato che si rifiuta di accodarsi al coro di accuse menzognere verso un collega; la moglie che con una appassionata lettera d’amore dona al marito esausto la forza di tirare avanti al fronte; la famiglia di contadini che ospita un nemico in fuga affamato e mezzo assiderato.
Grossman sa che sono queste le cose che contano e che conteranno anche fra cinquant’anni, anche tra cento secoli; anche quando altre ideologie saranno quelle vincenti. Rappacificato, sente di poter dire di sé quanto aveva scritto di un suo personaggio, proprio nelle ultime pagine di Vita e destino: aveva «vissuto da uomo e da uomo sarebbe morto; questa è la vittoria amara ed eterna degli uomini su tutte le forze possenti e disumane che sempre sono state e sempre saranno nel mondo».