La Russia sta scivolando su una china pericolosa con moto accelerato, dicono molti osservatori.
Tutti gli indicatori nel paese sono negativi; lo sono quelli economici, col valore del rublo che scende verso i minimi storici, col ministero delle Finanze che propone ai nuovi assunti di rinunciare a una parte dei contributi pensionistici, con la svendita del gas russo alla Cina; ma lo sono anche quelli politici, con i nostalgici che hanno il permesso di inscenare davanti alla Lubjanka la restaurazione del monumento al grande carnefice Dzerzhinskij (il monumento originale era stato abbattuto a furor di popolo nel 1991), oppure con l’aggressione subita per mano “di sconosciuti” dalla direttrice della tivù indipendente “Rain”, una delle poche che cercano di sopravvivere.
Per quanto riguarda la politica estera, l’analista Julija Latynina ha fatto un asciutto elenco dello status quaestionis: la “breve guerra vittoriosa” non è stata una vittoria per la Russia; il progetto putiniano della Novorossija ha fatto fiasco; dopo l’aggressione russa, Ucraina e Georgia sono uscite definitivamente dalla sfera d’influenza del cosiddetto “Mondo russo”; in più, nel corpo dell’Ucraina si è creata un’enclave criminale che vede nel conflitto armato l’unica sua ragione d’essere.
Ma è soprattutto il clima del paese che impressiona: la depressione psicologica e morale si sta diffondendo non solo tra gli antiputiniani ma tra i cittadini qualunque, che a parole sarebbero anche soddisfatti della politica del governo, ma poi condividono inconsciamente lo scoraggiamento generale; non a caso molti hanno deciso di emigrare all’estero o almeno sognano di farlo. E l’aggressività dei super patrioti non è che una maschera della stessa insicurezza e della stessa depressione. Non si vedono motivi reali di speranza.
E allora tornano in mente i tempi del “vecchio regime”, quando in mezzo alla massa indifferente dei benpensanti sovietici, un pugno di dissidenti rompiscatole protestava e disturbava la quiete sociale, per di più facendo il “gioco del nemico”. Le analogie con l’oggi sono tante, anche allora erano tempi oscuri e a dissociarsi erano in pochi; un vecchio cantautore del dissenso, Julij Kim, 78 anni suonati, ha appena composto una canzoncina sul tema, che inizia: “Rieccoci qua in pochi, 8mila non di più… rieccoci qua in pochi come al tempo che fu”. E conclude “rieccoci qua in pochi, e forse ancora meno, del resto fratelli, che ci sarà di strano?”.
Molti constatano con un brivido che è tornata la paura di pensare con la propria testa, di parlare fuori dal coro, di essere degli isolati, di nuotare contro corrente; ma del passato è tornato anche un fattore a suo modo semplificante, e cioè che oggi come allora l’avversario è unico e ben individuabile: un tempo era il Partito, adesso è Putin.
Sulla base di questa inimicizia l’opposizione cerca oggi in qualche modo di consolidarsi e di appianare le differenze interne; succedeva così anche allora, ma questa unità tattica non è mai stata la parte più forte del dissenso.
La vera risorsa su cui poggiava la solidarietà del movimento era la passione positiva per uno spazio umano di vita, per l’amicizia vera, per la bellezza; e per realizzare questo non c’era stato bisogno di aspettare circostanze favorevoli o l’eliminazione del nemico: l’anima della resistenza morale e culturale pescava nella coscienza di persone non rassegnate.
Solo di qui si può ricominciare anche oggi, a prescindere che il “grande nemico” continui a sussistere o meno, e soprattutto sapendo che il primo nemico è dentro di noi, nella nostra arrendevolezza o nella nostra pretesa che basti eliminare il nemico per risolvere tutto. È l’eterno dramma dell’individuo davanti al potere, che sia un potere repressivo o un potere culturale più soft: ci obbliga a decidere se sia meglio rispondere colpo su colpo, o cercare e affermare la bellezza di ciò che vive.
Negli anni terribili della rivoluzione, il filosofo Nikolaj Berdjaev aveva riconosciuto che il rancore, la paura, la vendetta ci incatenano alla realtà vecchia, sono il riflesso passivo del male. Quello che libera è il bene, la verità e la bellezza; loro ricreano e fanno vivere. Può sembrare scoraggiante dover ricominciare sempre dall’io individuale, constatando che le strutture sono ancora una volta asservite al pensiero dominante, e tuttavia resta pur sempre questa la vera forza della fragile opinione pubblica russa: che quel che ne rimane è fatto di persone, come le migliaia impegnate nel volontariato o nelle associazioni per i diritti umani, che sono certe del bene che hanno visto e creato, e non intendono rinunciarvi, come è stato evidente ad esempio al recente Meeting di Rimini nella testimonianza di Panteleimon, vescovo ortodosso, che ha descritto il fiorire delle opere di carità in Russia.