Cameron si è sbagliato. Di nuovo. Il referendum sull’indipendenza della Scozia ha fatto fare un’altra figuraccia al Premier conservatore. L’errore sarebbe potuto essere più grave se avesse vinto il Sì, ma la vittoria del No lascia una ferita affatto lieve.

Il primo errore di Cameron è stato quello di far svolgere la consultazione. Gli scozzesi gli avevano chiesto più autonomia, più competenze, come quelle che ha un qualsiasi governo regionale spagnolo. E il Premier ha risposto con arroganza: o tutto o niente. In qualunque Paese continentale europeo, dove la Costituzione è scritta, il Parlamento non può disporre in alcun modo di una questione così essenziale: prima va cambiata la Carta costituzionale. Questi sono i vantaggi delle moderne democrazie, che limitano i poteri della maggioranza nelle Camere. Downing Street ha così risvegliato il mito di Braveheart, l’eroe medioevale che si era opposto agli inglesi. Il Regno Unito nacque nel 1707 con l’Atto di Unione tra i parlamenti di Inghilterra e Scozia, le cui corone erano già unite dall’inizio del XVII secolo. Stiamo quindi parlando dello Stato più antico tra quelli che formano l’Ue.

La possibilità di votare ha riacceso il sentimento nazionalista che percorre da un secolo l’Europa come una minaccia. Né la storia di Braveheart (XIII secolo), né la preesistenza di uno Stato possono giustificare quella che è a tutti gli effetti una secessione, formula rifiutata dal diritto internazionale. C’è chi si emoziona di fronte all’entusiasmo “rivoluzionario” dei giovani separatisti che si mobilitano in alcune regioni d’Europa. Il loro impegno ha una dose di idealismo, ma anche molto di ciò che i classici chiamavano “idolatria della nazione”.

Il secondo grande errore di Cameron è stato la sua campagna per il No. Westminster, il potere finanziario e politico con base tra la City e i palazzi del Parlamento, ha reagito con un attacco di panico ai sondaggi che davano la vittoria del Sì. Anche The Economist ha utilizzato l’artiglieria pesante per evitare la rottura. Ma Cameron e Westminster hanno usato un solo argomento per tenere in vita il Regno Unito: gli interessi comuni. Lo stesso motivo che usano per allontanarsi dall’Unione europea.

Non tutto è economia, come spesso pensano i liberali (di cui The Economist è la massima espressione) e i pochi marxisti rimasti. Alla base di uno Stato come il Regno Unito, o di un progetto come l’Unione europea, non c’è l’economia, né un rapporto contrattuale, ma la società. Alla sfida della globalizzazione e alla fuga verso il passato del nazionalismo non si può rispondere con un’antropologia negativa come quella liberale. Ciò che ci tiene insieme non è una migliore commercializzazione del petrolio o la forza di una moneta unica, ma l’esperienza di chi siamo, gli uni per gli altri.

La cosa essenziale che rende possibile la vita economica e politica è l’essere europeo, continentale o isolano. Cioè, una comunità fatta di certezze condivise, un modo di stare nel mondo. Sfortunatamente Bruxelles si è trasformata in un centro liberale e risponde in modo inadeguato al crescente scetticismo britannico.

 

P.S: L’antropologia positiva ha conseguenze molto concrete. Nella sfera economica vuol dire sostenere l’imprenditore che crea ricchezza in relazione con gli altri o ridurre la burocrazia. L’antropologia negativa, invece, scommette sulla deregolamentazione del mercato quale soluzione a tutti i mali. Abbiamo già visto le conseguenze di una tale politica.