Secondo i dati dell’Onu, nel 2013 nel mondo ci sono stati 232 milioni di migranti. Vale a dire il 3,2% per cento della popolazione mondiale per necessità o per scelta ha cambiato paese. È un fenomeno in continua, impressionante crescita, se si pensa che nel 2000 il numero era di 175 milioni. Certo, dentro quei numeri bisogna distinguere tra chi emigra per scelta e invece chi emigra per forza: questi ultimi, sempre nel 2013, sarebbero stati oltre 50 milioni, 6,5 in più rispetto al 2012. La maggior parte di questo popolo di migranti forzati va sotto la categoria dei “migranti interni”, cioè persone che a causa di conflitti o persecuzioni si è trovata costretta ad abbandonare le proprie case e le proprie città senza però lasciare il proprio paese: e le statistiche ci dicono che il loro incremento è il più drammaticamente vistoso. Nel 2013 è stata toccata anche una cifra record per quanto riguarda i rifugiati: ben 16,7 milioni, provenienti principalmente da Afghanistan, Siria e Somalia.



È un fenomeno di dimensioni impressionanti questa umanità migrante “forzata”, che ogni giorno sperimenta la disperazione di abbandonare la propria terra, l’ansia di una vita migliore, l’incognita del presente prima ancora che del futuro. Ed è un fenomeno davanti al quale è evidentemente impossibile mettersi su una posizione difensiva, come se fosse possibile arginarlo, o se ne potesse restare immuni. 



L’uomo migrante non cambia solo la propria vita, cambia quella di tutti. È questa consapevolezza che sta dietro al Messaggio che il Papa ha scritto in occasione della prossima Giornata del Migrante e del Rifugiato. «Le migrazioni interpellano tutti», scrive Francesco. A cominciare naturalmente dalla Chiesa che è «senza frontiere, madre di tutti, diffonde nel mondo la cultura dell’accoglienza e della solidarietà, secondo la quale nessuno va considerato inutile, fuori posto o da scartare». Nello stile concreto che lo contraddistingue, Francesco, lo scorso anno, andando in visita al Centro Astalli di Roma, un centro dove i gesuiti fanno accoglienza agli stranieri, aveva lanciato la sua sfida: se non ci sono posti per accoglierli, apriamo i conventi e i monasteri rimasti vuoti. Una parola che non è rimasta sulla carta, come ha dimostrato un’inchiesta fatta da Avvenire nei giorni scorsi, dove si raccontavano molte storie di di comunità religiose che hanno messo a disposizione gli spazi delle propie strutture per far fronte all’eccezionale e drammatica ondata migratoria di questo 2014. 



Ma ora il Papa aggiunge un’altra sfida: dice che la tolleranza non basta più: «Non può bastare la semplice tolleranza, che apre la strada al rispetto delle diversità e avvia percorsi di condivisione tra persone di origini e culture differenti». Cosa vuol dire superare la semplice logica della tolleranza? Dice il Papa: ci vuole non solo la cultura ma anche il gusto dell’incontro.

C’è un passaggio bellissimo della Evangelii Gaudium, l’Esortazione apostolica presentata un anno fa, in cui il Papa aveva già toccato proprio questo tema. E lo aveva toccato capovolgendolo: cioè guardandolo non come problema ma come un’opportunità. Aveva scritto: «Come sono belle le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano, mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!». 

In questi giorni è uscito un libro bellissimo (titolo: Vita di vita) scritto a da Eraldo Affinati, romanziere ma anche professore di scuola, in cui racconta il viaggio fatto accompagnando Khaliq, un suo ex allievo, in Sierra Leone a riabbracciare dopo tanti anni la vecchia madre. Khaliq è passato per storie di drammaticità inimmaginabile ma oggi è uno dei migliori baristi di Roma. Un piccolo esempio per dimostrare quanto sia concretamente vero quel che il Papa aveva scritto.