Le prove di tregua tra Ucraina e Russia sembrano funzionare, ma non sembra che questo abbia ridato gran respiro o forza di progettazione all’Europa, ancora prigioniera di un’alternativa molto sterile tra sanzioni che sembrano inutili e silenzi o acquiescenze che sono immorali. Eppure ci sono ragioni per sperare: sperare, non sognare; il fatto è che l’Europa occidentale non sa più sperare perché non sa più vedere. E da vedere ci sarebbe qualcosa di più della pur realissima tragedia della guerra, dell’altrettanto reale mancanza di genialità o generosità politica delle parti in gioco, o ancora delle innumerevoli e diverse crisi che stanno attraversando tutte le nostre società. Molto ci sarebbe da vedere, ma l’Occidente sembra cieco: non vede e quindi non sa più sperare. Per chiarire che non si tratta di sogni e neppure di uno sguardo forzatamente positivo, proverò a fare qualche esempio di questa cecità suicida.

Due settimane fa, il 14 settembre, in Russia c’è stata una tornata di elezioni amministrative; non erano certo le grandi elezioni politiche generali, ma non erano neppure da trascurare: una trentina di governatori e, tra le altre cose, l’amministrazione comunale di Mosca. Non mi pare che se ne sia parlato molto in Italia, eppure qualche risultato di rilievo c’è stato: a Mosca non si è andati oltre il 21% dei votanti (mentre alle elezioni dell’ultimo sindaco si era arrivati almeno al doppio); e questo, nonostante le fortissime pressioni esercitate sull’elettorato perché manifestasse la propria adesione alla politica governativa recandosi alle urne: insegnanti e impiegati statali sono stati bombardati da telefonate e sms proprio in questo senso. 

Peccato che si sia persa l’occasione per discutere di questo fenomeno; al di là dell’adesione o meno al putinismo, la disaffezione della gente nei confronti della politica è pur sempre una questione importante. Difficile immaginare progetti politici se non si vedono cose tanto evidenti.

Domenica è successo qualcosa di ancora più sorprendente. Chi credeva di dover fare i conti con un’opinione pubblica russa addormentata, e così depressa che non va neppure a votare, ha dovuto fare i conti invece con la “marcia della pace”, una manifestazione di diverse decine di migliaia di persone, una folla che molti dei partecipanti hanno definito “sterminata”, composta di giovani e anziani, persone singole e famiglie, russi che non si vergognavano di essere russi ed erano orgogliosi di poter difendere il diritto degli ucraini a decidere del proprio destino senza ingerenze da Mosca. 

Il tutto in un’atmosfera assolutamente pacifica e festosa, con una marea di bandiere russe e ucraine, senza che a nessuno sia venuto in mente di bruciare le bandiere dell’avversario, proprio perché di avversari non ce n’erano. Certo, è stato qualcosa di sorprendente; e non a caso i commenti più frequenti di chi ha partecipato sottolineavano proprio la sorpresa. 

Ma poi, per chi ha voluto vedere, ci sono stati almeno altri due commenti ripetuti con insistenza: innanzitutto c’è stato  un diffuso senso di gratitudine per quanto era successo e poi c’è stata la percezione che per la prima volta dopo tanto tempo era stato possibile incontrarsi e “testimoniare l’unità vivente della diversità delle persone, come contrappeso all’ideologia spersonalizzante e mortificante che ti vorrebbero imporre”. E a questo punto, per chi ha partecipato o ha voluto vedere, non è stato forzato commentare: “È possibile che da questa nuova forma di aggregazione, qualitativamente capace di superare i confini geografici, possa nascere una nuova unità, non politica, non contro qualcuno, ma tesa soltanto ad affermare la vita”.

Di questa vita, in Occidente, non si è detto nulla. Ed è un peccato, non perché parlarne sarebbe la soluzione di tutti i problemi, ma perché almeno si ricomincerebbe a vedere la possibilità di risolverli: sarà magari una vita piena di contraddizioni e di difetti, certo, ma anche piena di novità e ancora capace di lasciarsi sorprendere; una vita che vorrebbe crescere, e che ha bisogno solo di pace e di spazio per svilupparsi e per essere condivisa.

Non è il programma di un nuovo partito politico, ma è la risposta che russi e ucraini sembrano rimandarsi da una parte all’altra del confine.

Perché anche in Ucraina ci sarebbe molto da vedere che invece l’Occidente non sa vedere. Certo, si prepara un inverno difficile: qualche settimana fa era già mancata l’acqua calda persino a Kiev; ora l’acqua è tornata ma all’est si parla comunque di chiudere le università nei due mesi più freddi. Verità o allarmismo, non importa; quello che conta è il commento che ho sentito fare: “dobbiamo imparare a non avere paura, dobbiamo capire che anche in queste condizioni possiamo vivere una vita normale”. Vivere una vita normale è l’espressione ricorrente che si sente in Ucraina quando si cerca di capire da cosa è mosso uno dei fenomeni più sorprendenti e meno conosciuti in Occidente: il fenomeno del volontariato che sta intervenendo ai più diversi livelli per ridare appunto una vita normale ai rifugiati, ai feriti, alla massa di gente che è stata trascinata in una guerra che non voleva e che non ha certo provocato. E quando chiedi a questi volontari perché si muovono, o perché non si lamentano dello Stato che non agisce al posto loro, ti guardano un po’ stupiti e ti ridomandano perché non dovrebbero darsi da fare se ce n’è bisogno. 

Certo, anche qui non è il programma di un partito politico, ma altrettanto certamente è un’atmosfera reale ed è una serie di fatti reali che rendono possibile la vita già adesso.

Forse davvero l’Occidente avrebbe qualche motivo in più per sperare e per ideare qualche pista di azione più concreta e reale se cominciasse a vedere questi fatti e cominciasse a considerare che i manifestanti russi  e i volontari ucraini non fanno altro che vivere quella sussidiarietà che sta scritta nel cuore stesso della storia europea e di cui si parla in tanti documenti ufficiali della stessa comunità europea.