Al Meeting di Rimini, visitando la mostra dedicata a Charles Péguy ho ritrovato una sua frase che don Giussani ci ha ripetuto tante volte: «Gesù non perse tempo a invocare i mali dei tempi… Tagliò corto. Oh, in un modo molto semplice. Facendo il cristianesimo. Non incriminò, non accusò nessuno. Salvò. Non incriminò il mondo. Salvò il mondo». Semplicistico? È il metodo di Dio. Punto.

Questa frase mi si è impressa perché sullo sfondo dell’aggravarsi di giorno in giorno del conflitto in Ucraina ho rivisto in trasparenza la figura di papa Francesco che anche oggi, proprio oggi, non cessa di ricondurre il cuore dell’uomo alla speranza, con gesti che ci lasciano sempre sconcertati, imbarazzati, impigliati come siamo nelle nostre misure. E come non misurare la tragicità del momento? La stampa internazionale rievoca sinistramente il 1° settembre 1939, quando in seguito al patto stipulato fra Hitler e Stalin il Terzo Reich aggredì la Polonia e pochi giorni dopo, il 17 settembre, anche le truppe sovietiche vi entrarono da occupanti. Era l’inizio della seconda guerra mondiale. Per la Russia, a sua volta, proprio il 1° settembre è caduto il decimo anniversario della strage di Beslan, massacro perpetrato da un gruppo di separatisti islamici in una scuola dell’Ossezia del Nord, che causò 400 morti tra la popolazione civile (tra cui circa 200 bambini), e 700 feriti. Ancor oggi, questa pagina è una ferita aperta, perché oltre al dolore dell’accaduto, restano tanti sospetti, tanti interrogativi insoluti sugli autori della strage e sullo svolgimento delle operazioni di soccorso.

Lo sgomento cresce, insieme al senso di impotenza che tutti proviamo di fronte al riapparire oggi del «misterium iniquitatis allora esploso sul territorio polacco, e di cui simboli sono oggi Katyn’ e Auschwitz», come hanno detto in un messaggio di questi giorni i vescovi polacchi. Fino a poco tempo fa sembrava che un conflitto mondiale fosse impossibile, scongiurato per sempre dalla consapevolezza dell’orrore di cui il mondo intero è stato testimone. Oggi nessuno sarebbe pronto a scommetterci.

Siamo di fronte a un intreccio internazionale di interessi, ambizioni, calcoli politici di cui – ci accorgiamo bene – nessuno conosce al fondo il bandolo; assistiamo allo snaturamento di parole e concetti, per cui «bene», «libertà», «identità» e «giustizia» vengono mostruosamente manipolati e alla fine si riesce a presentare un’occupazione militare come un gesto umanitario, e addirittura a riscuotere nei suoi confronti consensi nel mondo libero e civile.

In questo scenario, papa Francesco non ha «perso tempo a incriminare o ad accusare nessuno», ma ha compiuto dei gesti di salvezza: come quando all’Angelus di domenica 24 agosto non ha avuto alcun imbarazzo nel pregare a voce alta e chiara per l’Ucraina, nell’esprimere il dolore e l’angoscia partecipatigli da monsignor Svjatoslav Ševcuk, arcivescovo maggiore della Chiesa greco-cattolica ucraina.

Questi ha poi così riassunto il contenuto della sua lettera: «Muoiono fedeli appartenenti a diverse confessioni religiose, a tante Chiese: ortodossi, cattolici, protestanti, ebrei, musulmani… Volevo presentare al Santo Padre il dolore profondo del nostro popolo. Il dolore di tanti civili feriti, il dolore di tanti militari ucraini che sono fatti prigionieri: ogni giorno ne vengono torturati a decine, il dolore delle madri che perdono i loro figli, il dolore della Chiesa madre, che sta soffrendo insieme ai suoi figli. Questo ho scritto al Santo Padre, raccontando anche i fatti concreti della vita della nostra Chiesa nella regione di Donetsk».

Oppure, ancora, come quando due giorni fa a sorpresa il Papa ha scritto una lettera alla popolazione di Beslan. Una lettera in cui, travalicando confini di spazio, di cultura, di appartenenza religiosa, Francesco testimonia la responsabilità di ognuno di noi di «spegnere la brace della disperazione e dell’odio», di «estirpare la radice del risentimento e della vendetta». In lui non c’è posto per gli interrogativi e i dubbi che si ammassano nelle menti di tutti e ne ingombrano l’orizzonte, senza lasciare tempo e libertà per altro. In papa Francesco si coagula il dolore del mondo ma anche la certezza che «un mondo migliore è possibile: seminate perdono, dolcezza e accoglienza, sapendo che i frutti di questi semi si vedranno, col passare del tempo, e si moltiplicheranno».

Vladimir Solov’ev, nel 1900, scrisse la Leggenda dell’Anticristo, non perché volesse identificare l’Anticristo con Tolstoj o con un potente della terra, ma per mostrare che progressisti e conservatori, razionalisti e moralisti, laici e cristiani, se non poggiano sull’esperienza («Confessa che Cristo è il figlio di Dio», dirà lo starecGiovanni), anziché essere – come si pretendono – portatori di valori umani e cristiani, diventano complici di una menzogna che finisce per soffocarli e trasformarli in strumenti del male. La scelta tra valori sempre manipolabili, e l’irriducibilità, la densità lieta e certa dell’esperienza è il bivio radicale a cui si trova la nostra epoca. Sembra ingenuo. Ma è il metodo di Dio.